sabato 27 febbraio 2010

SUICIDIO DI STATO

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Espropriati di tutto e assassinati dallo Stato. Negli ultimi mesi la cronaca ha registrato una serie di suicidi avvenuti nello storicamente ricco Nord-Est d’Italia. Una catena di suicidi misti, tra piccoli imprenditori, lavoratori, operai comuni e gente ormai da tempo esclusa da tutto. La Medicina psichiatrica diagnostica il suicidio tra gli effetti di una malattia mentale chiamata “depressione”. Con una serie di equazioni che semplici non sono ma che alla coscienza della gente devono arrivare in una manipolata allettante semplicità per una migliore e più gradevole assimilazione: se si è suicidato è perché era depresso; la depressione porta a suicidio; ci sono psicofarmaci per la cura della depressione. Se la depressione è causa di suicidio e ci sono psicofarmaci per la cura della depressione è meglio curarsi che suicidarsi. Il suicidio, momento del porre fine alla propria vita con le proprie stesse mani, è azione a cui mai si dovrebbe pervenire. Al di là di come poi l’individuo vive se stesso e la relazione con la Psichiatria e di cosa vuole liberamente decidere della propria vita, qualcosa d’una problematica che ci riguarda in prima persona ci poniamo.
Perché lo psichiatra fa quel tipo di ragionamento? Certamente per prevenire il suicidio. D’altra parte è compito di tutti prevenirlo. Ma voler prevenire il suicidio come fa la Psichiatria, facendone un fatto di malattia, riesce veramente a raggiungere il fine che si prefigge? Quei suicidi del Nord-Est, e non solo loro, non sono d’accordo con tutto il meccanismo psichiatrico che pone in relazione suicidio e malattia.

“gli affari non vanno”
“non ho più soldi neanche per mangiare”
“travolti dall’angoscia di non poter più pagare i dipendenti”
“non sono stati in grado di rifarsi una vita”.

Lì è possibile una decisione, terribile decisione, sicuramente da non prendere mai, ma possibile. Eppure anche lì sembra trovare posto e giacenza ancora un inganno: quando qualcosa sembra di stare decidendo, ecco un momento in cui paradossalmente un atto di libertà pura va a coincidere con il suo concentrarsi in un punto al di là del quale non mi è dato d’andare o d’affacciarmi. E poi, perché mai rivolgere la decisione e l’arma contro noi stessi quando, al di là dell’utile “malattia” della Psichiatria, il suicidio è assassinio di Stato.
Squalificando i morti per disprezzare e nullificare i vivi, gli individui vengono espropriati di tutto e perfino della vita dove la proprietà è una religione. Segni d’una strada diversa. Quella situazione e condizione che chiamiamo “depressione”, comunque intesa, non è uguale per tutti. Nemmeno la morte è uguale per tutti e nemmeno quella da suicidio. Quegli uomini, pur nella loro differenza di classe, pur se non in una uguale decisione, ci hanno regalato lo stesso messaggio. Quei morti con la loro azione inutile qualcosa generosamente stanno gridando al mondo. Non certo per le orecchie della Psichiatria.

venerdì 19 febbraio 2010

MENTE IN PILLOLE


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Elliot S. Valenstein
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È come se dicessero cose diverse quelli che sono a favore e quelli che sono contrari all’uso della sostanza. Anche se Valenstein non è d’accordo, è richiamato frequentemente nell’Anti-psichiatria non ufficiale come un ricercatore contrario allo psicofarmaco. Come più volte ribadito, nei confronti della sostanza, e lo psicofarmaco lo è, non ci interessa uno schieramento per partito preso. Nemmeno quando nella scelta non siamo coinvolti in prima persona. Ci piace invece sapere e capire come la sostanza funziona all’interno di un contesto autoritario e delle Utilità. Come potrebbe funzionare in un contesto di relazionalità empatica non ci è dato sapere, e non certo per nostra scelta, se non in quegli eccezionali casi nei quali ad una condizione di relazionalità autoritaria si può strappare un momento di relazione empatica.
Negli anni Cinquanta niente si sapeva sulle reazioni chimiche del cervello. La cloropromazina fu venduta non perché proponeva una teoria o una cura ma per la possibilità di risparmio economico che poteva offrire rispetto ad altre pratiche. Si riteneva – come si ritiene tutt’oggi – che gli psicofarmaci, riducendo i sintomi, avrebbero reso il paziente più disponibile alla psicoterapia. Se quando l’LSD blocca la serotonina nel cervello provoca come effetto i sintomi della schizofrenia, significa che i sintomi della schizofrenia dipendono da una carenza di serotonina. Solo ipotesi in un determinismo trattato come verità. L’ipotesi dei neurotrasmettitori. Quali prove? Teorie non convincenti sulla depressione. Gli studi contrari alle ipotesi non vengono pubblicati. Spesso si scambia l’effetto con la causa. Il modo di vivere cambia il cervello. Cura di più il farmaco o il placebo? Il Marketing è al di sopra della prove e degli studi scientifici. E i farmaci antipsicotici atipici? L’industria farmaceutica promuove le teorie biochimiche dei disturbi mentali, controlla gli articoli e le riviste scientifiche. La depressione è un disturbo fisico? È stata identificata la causa chimica dei disturbi mentali? Ammessa una relazione tra variabili biochimiche e comportamento, c’è molto nelle teorie attuali che non va. Nonostante ciò quella dello psichiatra si pone come l’arroganza del profondo conoscitore della mente umana. I trattamenti vanno sempre più verso la massiccia somministrazione di farmaci relegando ogni altra possibile modalità assistenziale nell’ambito delle fantasie. Valenstein non è contrario ai trattamenti psicofarmacologici. Tra contrari e favorevoli rimane comunque il disagio degli individui mai comprensibile nella logica dell’industria farmaceutica e degli psichiatri. Incomprensibile anche quando, una volta compreso, la cronica ipoteca istituzionale sulle risorse gira lo sguardo altrove dichiarando la “malattia” unica responsabile d’ogni impotenza e d’ogni fallimento.