«I
protagonisti sorpresi in cappella dall’obiettivo fotografico erano “tarantati”
(…) molti di loro avevano celebrato nei rispettivi domicili un rito singolare:
mediante il vibrante simbolismo della musica, della danza e dei colori si erano
sottoposti all’esorcismo della taranta, il cui morso immergeva in un mortale
languore o in una disperata agitazione senza orizzonte.»
(De Martino,
1961.)
Non doveva essere malattia al punto che, nemmeno
di fronte ad un’eclatante sintomatologia descritta dallo stesso de Martino pur
di natura delirante allucinatoria, nemmeno uno psichiatra poté essere messo
alla direzione dell’équipe che richiedeva, per autoreferenzialità, un Etnologo e uno Storico delle religioni, professioni corrispondenti ad un medesimo
personaggio. Intanto sul biglietto da visita di Luigi Stifani era scritto: “dottore di tarantismo”. E non aveva
ragione? Certamente una ragione diversa da quella di de Martino ma sempre
ragione aveva. D’altra parte, per l’autore di quel monumento alla Psichiatria,
il Tarantolismo ritornava, dopo una dichiarata opposizione a quell’ipotesi, ad
essere solo una diversa malattia o solo una malattia la cui causa era interpretata
diversamente che come effetto del veleno d’un ragno. Se nella teoria
interpretativa dello Storico delle
religioni, sospesa la ritualità musicale-coreutica, la sintomatologia
appariva nella sua verità di natura neuropsichiatrica, allora Stifani con le
sue musiche doveva essere posto in analogia con lo psichiatra che vedeva
slatentizzare la malattia se non controllata dallo psicofarmaco.
Ingannati da una simulazione, al punto che era loro
apparsa espressione di una sintomatologia clinica, mi chiedo com’è che tutti
gli studiosi del Tarantolismo precedenti non avevano nemmeno lontanamente
intuito la necessità, anche quando dubbiosi, di andare a sorprendere i
simulatori lì dove il loro inganno non si sarebbe potuto più nascondere. Forse
solo per il fatto che non disponevano ancora di un modello che consentiva loro
di interpretare la ritualità musicale-coreutica in analogia col meccanismo
dello psicofarmaco. D’altra parte è solo negli anni Cinquanta che si ha una
svolta, tutt’ora galoppante, con i neurolettici ed è del ’59 quello che appare
il debutto da parte di de Martino di un’interpretazione, con molta probabilità,
sottesa dall’idea di un’analogia tra il meccanismo ad intermittenza dello psicofarmaco
e quello della ritualità musicale-coreutica risolutiva del “tarantismo”. Questa volta siamo proprio
nelle illazioni del delirio dove tutto fila liscio al riparo di inquietanti
quesiti.
Negli anni Cinquanta, dalla scoperta della
Clorpromazina fino al 1958 con la scoperta dell’Aloperidolo, la Neuropsichiatria,
differenziatasi dalla Psichiatria come Neurologia solo negli anni Settanta,
incominciava a galoppare sui neurolettici evidenziando molto spesso un
meccanismo dello psicofarmaco definibile ad interruttore: durante la
somministrazione la sintomatologia veniva controllata dal farmaco sospeso il
quale la malattia, e comunque la sintomatologia, si evidenziava in tutta la sua
pregnanza. Tale fenomeno lasciava concludere che senza il farmaco la malattia
ritornava. Tale evidenza è ciò che rappresentava la consapevolezza della
Neuropsichiatria a partire dagli anni Cinquanta. La cappella di Galatina era un
momento in cui, utilizzando un modello analogico di pensiero, il “tarantismo”, ormai privato della
funzione di controllo e latentizzante attribuibile alla ritualità musicale-coreutica,
poteva essere osservato nella sua essenza di malattia mentale slatentizzata.
Con lo stesso meccanismo il quesito slatentizza la malattia dell’interpretazione.
È di prossima uscita il volume: