Come farla scomparire. «Non curò disabile psichico.» Chi, come e dove diagnostica “malattia” e nega il malato.
di
Gaetano Bonanno
Gaetano Bonanno
Se in psichiatria l’azione clinica toglie la parola è perché ha già saputo uccidere. Quella che, nel non curare un disabile psichico, scelta clinica pure questa, potrebbe apparire come occasionale negligenza di un medico di pronto soccorso, emerge come reale e abitudinario processo di negazione ed esclusione della diagnosticata malattia mentale. Ecco come la medicina in generale e la psichiatria in particolare negano la malattia mentale dopo averla diagnosticata. Uno sguardo oltre ci deve portare a capire perché tanti psichiatri, quindi la medicina anche attraverso la psichiatria, si fanno oltre che paladini di una diagnosi anche disposti a negarla un attimo dopo. Oltre alla malignità che mi caratterizza e che mi porterebbe a pensare prima di tutto ad una questione di malafede, sono propenso a ritenere che alla base di tale negazione ci sia un problema di metodo rimosso con leggerezza da una logica di dominio. Il bussare della rimozione dove non riesce a farsi sentire alla porta della coscienza incartapecorita va ad esplodere in casa dell’istituzione mettendone in mostra le miserie e l’incompatibilità con la vita. Quello che al senso comune può apparire un metodo negante la malattia mentale o una mancanza di cura, è per il medico scelta e azione clinica. E chi ha parola in capitolo?
La malattia mentale non esiste. Più o meno affrettata conclusione che farebbe bestemmiare pure i santi. Quegli stessi santi che quando la potenza del delirio, il trasporto delle allucinazioni, il corpo estasiato da divine presenze, la tribolazione della carne piagata, tormentata, ossessionata, rincorsa, straziata, tumefatta, ferita, afflitta, martoriata, martorizzata, torturata da diavoli di varia natura, ne mantenevano il corpo in condizioni di non certamente umana sofferenze avrebbero desiderato che qualcuno stesse loro a fianco per alleviare quelle pene e, non essendoci mezzi umani possibili, erano costretti a rivolgersi alla clemenza di quelle stesse forze che quelle sofferenze provocavano. Quegli stessi santi, la cui sofferenza corporale, accompagnata da colloqui con l’aldilà, da voci del dio o del diavolo, acquista valore del segno di santità dal punto di vista del cattolico mentre per la psichiatria ha tutti i connotati del delirio mistico e della malattia mentale e per un ateo qualsiasi potrebbe essere pensata come un segno di una non meglio spiegabile follia. Ma bestemmiassero pure se riuscissero almeno a tappare la fogna dei tanti imbecilli e dei tanti in mala fede sempre pronti a strumentalizzare tutto ciò che potrebbe non portare acqua alla macina del loro dominio per mantenere il quale non badano a spese come non badano a danni di uomini e di cose. Non esiste, non grazie a quei venerati santi o grazie all’interpretazione che delle loro sofferenze ne danno i custodi, vecchi e nuovi, di un sempre aggiornato tempio della religione, ma non esiste essenzialmente anche grazie alla capacità della psichiatria di annientarla nei suoi bisogni e nelle sue richieste dopo averla diagnosticata.
Fasi certamente diverse. Prima non esisteva tenuta al di là della vista dietro spesse mura; oggi non esiste lasciata scomparire dietro una inflazionata ma ignorata bibliografia che ne propone la cura dopo averla diagnosticata.
Che bisogno c’è di ricorrere ai cosiddetti antipsichiatri per fare scomparire la malattia mentale. La “malattia mentale” non la sa negare nessuno meglio di come la sa negare la psichiatria, qualche volta con la complicità dei pochi professionisti che, pur accostandosi all’umana sofferenza con spirito empatico e antiautoritario, sono schivi dal prendere chiara posizione critica contro le tante schifezze prodotte da tanta stimata psichiatria, da tanti stimati psichiatri e da tanto stimate industrie farmaceutiche. Anche in tal senso una bibliografia seria, scientifica, approfondita e attuale è reperibile e inflazionata di dati di riferimento.
La riflessione critica seguente trae spunto da un articolo uscito sul Giornale di Sicilia del 16 Nov. 2007 - «Buccheri. La difesa: non aveva problemi fisici. “Non curò disabile psichico”. Un medico rinviato a giudizio.» Non interessa a me, per quanto in questo momento mi sto chiedendo, una riflessione sul medico specifico di quell’occasione – i dati del quale sono stati comunque forniti dall’articolista - mentre per precisi riferimenti bibliografici e per comodità di lettura riporto per intero l’articolo a cui poter fare riferimento per una riflessione sul malcostume della medicina nei confronti della persona con disagio relazionale. Non ha la pretesa di una cronaca anche se si basa su un fatto di cronaca raccontato da un articolista, un certo CR. G.
È antico, ma tuttora attuale, il confronto ideologico tra chi sostiene che la malattia mentale esiste e chi sostiene che non esiste; oggi più scientifico e molto meno ideologico. C’è poi un terzo gruppo, di più furbi, ma non per questo più giustificabili come scienza, che non prende partito non trovando una base su cui fondarlo ma continua a trattare l’argomento, con i collegati benefici, senza un aperto schieramento, ma nell’abisso del dubbio, come se per l’atto clinico fosse secondario il porlo in relazione ad una malattia o ad una non malattia. Come se, per chi era accusata di stregoneria e per chi quell’accusa-diagnosi poneva nel Seicento, fosse secondario sapere se realmente le streghe esistessero o no. Questi sono quelli dello “stato dell’arte” che, escludendosi da ogni coscienza individuale e da ogni possibilità di discernimento personale giustificano ciecamente il loro operato con lo “stato dell’arte” che sostiene, a loro dire, che quella mentale sia una malattia dimenandosi tra uno psicofarmaco e una psicoterapia (sempre di origine psicoanalitica) ma senza mai sbilanciarsi né su cause, né su anatomopatologia, né sul perché si guarisce o non si guarisce, né sul perché si guarisce o non si guarisce nonostante tutto; dimenandosi tra complessità, multifattorialità causale, visioni olistiche, isomorfismo encefalo mondo esterno e terza via della psichiatria, per ridurre, dopo tutto, l’intervento all’ipotesi della difettualità biologico molecolare correggibile con un sempre disponibile farmaco di ultima generazione. Non fanno certamente caso al fatto che lo stato dell’arte, oltre a essere non limitato agli autori scelti, non ha un indirizzo univoco né è pervenuto ad una conclusione unica nemmeno per le teorie più accreditate che rimangono comunque nell’ambito delle ipotesi.
Nei confronti di pregresse dichiarazioni contrarie all’esistenza della malattia mentale, che comunque fecero parte del più ampio dibattito e della lotta che portò alla chiusura di una industria di morte come il manicomio, ci sono ancora oggi profondi portatori di odio; contro il pur minimo tentativo di porre in dubbio la malattia volontariamente ignari che il filone della medicina internazionale che dichiara che il cosiddetto disagio mentale non ha i requisiti per essere categorizzato tra le malattie, oltre ad essere di grande attualità è enormemente sostenuto.
Vittorino Andreoli, che più che essere conosciuto come antipsichiatra è ritenuto la voce della psichiatria ufficiale, dice: «L’aggiunta dell’aggettivo “malato” al sistema-encefalo o alle sue funzioni ha costituito nella storia un problema. A questo aggettivo, riferito alle funzioni encefaliche, è legata la storia della psichiatria. […] L’aggettivo malato non ha alcun significato né se viene attaccato al riduzionismo biologico né se è aggiunto a quello sociale.» (Vittorino Andreoli; L’uomo folle. La terza via della psichiatria, Prima edizione BUR Scienza ottobre 2007, Milano; pag. 225-227)
Volontariamente ignari, ciechi sul fenomeno e consensienti all’abituale misconoscimento della malattia mentale e della persona portatrice di un disagio relazionale realizzato tutti i giorni nelle strutture sanitarie in generale e in quelle della Salute Mentale in particolare, proprio da parte di chi con scrupolo, polemica puntualità e rigoroso autoritarismo si fa scientifico paladino del concetto di “malattia mentale”.
Spesso il dibattito è malposto e spesso le posizioni sono volutamente e strumentalmente fraintese fino al punto, da entrambe le parti, sostenitori e oppositori, di disattendere all’osservazione e alla denuncia proprio di quello che avviene all’interno della stessa medicina titolare della diagnosi di malattia mentale e titolare nello stesso tempo della sua estinzione per la trascuratezza o la superficialità nelle cure se non per il concreto abbandono.
Chiedersi se si tratta di una malattia, è per la psichiatria ufficiale una provocazione di lesa maestà. Il chiedersi, cercando una risposta, se il disagio relazionale è classificabile tra le categorie della malattia, quindi della patologia medica, con riguardo alla metodologia scientifica della stessa medicina, l’unica fino ad ora abilitata alla classificazione delle malattie, è il minimo che si possa fare, per ognuno che abbia per un qualche motivo a che fare con le problematiche del disagio relazionale. Mentre prende parte di una risposta affermativa, quanto ci racconta un articolista per il Giornale di Sicilia lascia emergere l’artificiosità della difesa a spada tratta da parte dei medici della psichiatria, branca della medicina, del concetto di “malattia mentale”, concetto fatto proprio dalla medicina in generale che non si fa scrupolo, nella pratica di tutti i giorni, dell’estinguersi della malattia mentale con tutto l’ammalato diagnosticato.
Note significative dall’articolo:
- «Buccheri. La difesa: non aveva problemi fisici. “Non curò disabile psichico”. Un medico rinviato a giudizio.»
- il «medico del pronto soccorso del Buccheri La Ferla, rifiutò di visitare un paziente […] con problemi di disabilità psichica […] che non manifestava particolari problemi fisici.»
- I poliziotti «Gli agenti, alle sei e mezza del mattino […] ricevettero la segnalazione della presenza di un uomo nudo e sdraiato al centro della carreggiata, proprio nei pressi del Buccheri La Ferla. L’uomo, di nome Franco, fu trovato dentro il pronto soccorso: “È una nostra vecchia conoscenza”, dissero medici e infermieri. Il disabile si allontanò ma poi tornò a spogliarsi per strada. A questo punto i poliziotti lo presero e lo riportarono al pronto soccorso, per consegnarlo ai medici, cui chiesero le generalità per annotare a chi lo avessero affidato. La D’Aubert rispose di non essere tenuta a dare le generalità per quel tipo di intervento, perché l’ospedale non aveva struttura psichiatrica.»
Potrei ritenere perfino falso l’articolo, inesistente l’articolista, inesistente il fatto e i personaggi raccontati. La stampa mi ha ormai smaliziato abbastanza sui falsi d’autore, non ultimo quello dell’anziano che ruba per fame. «27 settembre 2007 alle 09:27 — Fonte: repubblica.it […] Il quotidiano di Cagliari “L’Unione Sarda” chiede scusa per la notizia “totalmente falsa”, pubblicata martedì, del pensionato sorpreso a rubare per fame in un market.» (http://news.kataweb.it/item/358087/anziano-ruba-per-fame-l-unione-sarda-si-scusa-e-falso). Non è strano l’articolo falso di una realtà vera nei confronti della quale anche un articolo vero altro non è se non il lontano accenno di un riflesso. Eppure quell’articolo falso pone alla nostra attenzione la realtà di una condizione autentica e ancora pone a noi una domanda: oggi può essere vero che la condizione dell’anziano sia la sua riduzione a rubare per fame? La risposta non è da andare a cercare necessariamete in un articolo raccontatoci ma nell’analisi e nella presa di coscienza della realtà sociale, delle famiglie e della popolazione italiana in generale. Questa ci dice molto di più della condizione dell’anziano all’interno della società dell’opulenza e del capitale sfrenato. D’altra parte cosa mai ci potrebbe interessare il contenuto di un articolo se non per la situazione che propone alla nostra attenzione, alla presa di coscienza e all’azione: il furto ci permette di riappropriarci di tutto ciò di cui l’arroganza al potere ci espropria tutti i giorni. È possibile mai che la malattia mentale è fatta scomparire proprio da parte di chi difendendone strenuamente la diagnosi attacca autoritariamente e repressivamente ogni pur minimo tentativo di messa in dubbio della categoria “malattia” inventata in modo surrettizio per le problematiche del disagio relazionale? Perché mai chi diagnostica, gelosamente, malattia mentale è nello stesso tempo anche disponibile a farla scomparire negandola con tutta la persona dietro la sua azione protetta dell’abbondante camice della clinica?
Perché fanno scomparire la malattia mentale? La risposta sarebbe semplice: perché hanno lo stesso potere di inventarla. Non è un comportamento occasionale. Detto ciò, so anche che, quanto raccontato da quell’articolista nel Giornale di Sicilia è situazione talmente verosimile da farmi pensare a quello descritto non come ad un comportamento eccezionale o occasionale quanto ad una modalità abituale in cui si può trovare una persona che sta male e ha bisogno di aiuto dopo essere stata diagnosticata come “malato mentale” o “disabile psichico”.
Fuori dal manicheismo verità/non-verità. Uscendo dalla logica mistificatoria di verità/non verità dentro la quale ci dibattiamo con dinamiche da tribunale, come se le più atroci e sanguinarie porcherie che la società attuale ci impone dipendessero sempre da una ritrova o mancata individuazione della verità, quello che mi chiedo, di fronte a quell’articolo, è se per l’esperienza mia personale esiste o no un comportamento come quello raccontato nel caso di cronaca. Dico che non solo esiste ma che è abitudinario e che rappresenta uno dei modi in cui la medicina nega la malattia mentale.
Voglio anche riflettere e denunciare ciò che capita a noi persone in situazioni di bisogno e cosa in particolare capita quando questo bisogno è chiamato “malattia mentale”. In tal senso la prima cosa che si evince dalla dinamica del racconto è di come sia la stessa medicina a dichiarare l’inesistenza della malattia mentale. La stessa medicina che teorizza l’esistenza della malattia mentale e la diagnostica perfino. Dichiara tale inesistenza non nella teoria o nella sua bibliografia, non nei suoi libri, ma nei fatti, nella concretezza del suo operare di ogni giorno, proprio nella scelta e nell’azione clinica di ogni giorno, dopo avere gridato scandalo verso chi ha detto e dice, espressamente e senza mezzi termini, che la malattia mentale non esiste. Ne dichiara l’inesistenza proprio attraverso una scelta clinica con l’arroganza di chi, lasciando accompagnare la sua azione dall’appellativo “clinica” si ritiene immune e al riparo da ogni critica possibile.
«Il clinico, a fronte del malato, deve prendere delle decisioni:
Di quale malattia si tratta?
Sono necessari ulteriori test diagnostici?
È necessario un trattamento?
Quale trattamento?» (http://www.oncologiaumana.unito.it/merletti/Analisi%20delle%20decisioni%20cliniche.pdf)
L’atto del trattare o non trattare, se fanno parte allo stesso modo di una decisione clinica non per questo, in relazione al senso, alla logica, alle condizioni e agli effetti, sono decisioni immuni da un’analisi critica o da un sentimento critico. In relazione alla malattia mentale, per molti ferri vecchi della psichiatria ma anche per molti altri che sono solo vecchi senza mai essere stati ferri, la parola d’ordine è che qualsiasi decisione e qualsiasi azione che sia accompagnata dall’aggettivo “clinica” che la qualifica in scienza debba essere immune da critica e da parola. Detto dalla psichiatria che ha parlato veramente troppo, perfino sproloquiando, in buona o mala fede, è proprio un eccesso nella pura e semplice produzione e gestione di potere e non certo di salute.
A tal proposito si ricorda che tutte le azioni e le scelte mediche dell’alienistica a partire da quelle della buonanima di San Pinel libertore dei folli, a continuare con la psichiatria concentrazionaria fino a quella attuale del manicomio polverizzato sul territorio, sono azioni e scelte cliniche e non certo da banditori di lupìni.
Quello che si evince da quell’articolo è ancora un altro dato: c’è una causa in corso, la giustizia ha preso in mano la cosa. Questa forse troverà ragione per il medico; forse per la struttura sanitaria; forse per Franco scomparso con tutta la sua malattia; forse per i poliziotti che, normalmente scontati e giurati difensori dell’istituzione, si sono sentiti perfino offesi da quel medico. Quello che da un tribunale mai si evincerà è come la medicina fa scomparire tutti i giorni la malattia mentale dopo averla diagnosticata.
Sono in tanti anche i medici, e i medici della psichiatria, che, se sono disposti a dichiarare il disagio relazionale condizione non compatibile con il meglio definito concetto anatomopatologico di malattia di derivazione della scienza medica, sono anche disposti a proclamarne l’analogia fino all’uguaglianza e all’identità.Emergenza di quell’articolo è la denuncia, oltre l’ormai socialmente sopito confronto polemico delle posizioni, del dissolvere della malattia mentale da parte della medicina dopo averla diagnosticata; la denuncia di come la medicina, attraverso i sanitari in generale e attraverso gli psichiatri in particolare faccia scomparire la malattia mentale dopo averne dichiarato l’esistenza e dopo averla diagnosticata.
Fenomeno non nuovo: tutti i trattamenti ha ricevuto il folle tranne quello del malato, della persona con una seria patologia. Prima, dall’alienistica alla psichiatria, passando per la pseudoscientifica frenologia del medico tedesco Franz Joseph Gall (1758 - 1828), in seguito la psichiatria quale specialità della medicina hanno di fatto realizzato la scomparsa della malattia mentale dopo averla diagnosticata. Questa modalità di annientamento della dichiarata malattia con dissolvenza della stessa persona è il vero comportamento del quale la psichiatria è principale responsabile. Non c’è bisogno di negare la malattia mentale la dove questa è stata da sempre negata dalla psichiatria. Altra cosa è il ritrovare la persona con i suoi bisogni oltre l’etichetta diagnostica e lo stigma psichiatrico.
Non entra nel dilemma esistenza/non esistenza della malattia, mentre quell’articolo offre la possibilità di cogliere come realmente, col negare la malattia, è negata anche la persona proprio da parte della medicina che afferma e rivendica a pieno titolo l’esistenza della malattia mentale.
Una vecchia conoscenza. La scienza medica per uscire dalla teoria deve esplicarsi e realizzarsi attraverso le strutture sanitarie. Quando arriva una persona con il diabete, anche se si tratta di una vecchia conoscenza, è pensabile che in un pronto soccorso esista un protocollo di comportamento che consente alla persona di ricevere, dopo un’attenta anamnesi e una valutazione, soccorso, cura, una diagnosi, una terapia. Si sa; il diabete è una malattia e nessun medico di pronto soccorso si sogna, o almeno così dovrebbe essere, di non curare una persona con diabete sostenendo che in quell’ospedale non c’è il reparto o un centro di diabetologia. Il diabete è usualmente anche una malattia di paragone con la malattia mentale; lo psichiatra, dopo avere diagnosticato una malattia mentale, senza con questo averci necessariamente detto quale (ci sono persone che non hanno una diagnosi dopo anni di frequentazione psichiatrica o che se la sono vista cambiare più volte), dice al suo paziente: come per il diabete la tua malattia mentale ha bisogno di un’assunzione farmacologica a vita. Malattie paragonabili solo nel senso che lo psichiatra ha deciso, perché, per altri versi, quando in un pronto soccorso arriva una persona con una pregressa diagnosi di malattia mentale, diversamente dalla persona con il diabete può non trovare cura, può non ricevere un ricovero perché in quell’ospedale non c’è una struttura psichiatrica, può non avere una diagnosi perché, essendo magari una vecchia conoscenza, uno che già è stato diagnosticato “malato di mente” rimane aprioristicamente in quella categoria per tutta la vita, in ogni occasione e ovunque si trovasse.
Un paragone o un’analogia arbitrariamente forzate che, se con tutta la buona volontà potessero far pensare ad una bugia pietosa, non possono distrarre dal fatto che nella persona con diabete c’è qualcosa da misurare, dei parametri con cui confrontarsi, delle analisi eventualmente da eseguire, mentre nessun parametro misurabile e nessun esame sul corpo è previsto per la malattia mentale. È questo uno dei modi della sanità per cui spesso, in un pronto soccorso, il medico di guardia altro non fa che posteggiare il paziente in attesa dello psichiatra reperibile.
Non si deve sottovalutare che tutto quanto in quell’articolo si evince se non è critica di una scelta clinica non è nemmeno solo critica del medico o della struttura, senza lesa maestà o violazione del santo sepolcro dove ancora deve rimanere chiusa la relazione medicina-malattia mentale, ma è essenzialmente critica di un costume che si serve di strumenti, azione clinica compresa, i cui effetti sono la scomparsa della malattia mentale. Una cosa è dire che il medico non curò un disabile psichico, altra cosa è dire che il suo comportamento è stato espressione di una scelta clinica. Quello che dice il medico in situazioni simili. Anche quelle manicomiali, anche quelle della peggiore psichiatria erano scelte cliniche. Si vede che le scelte cliniche anche dell’attuale psichiatria sono molto vicine ad essere lette come mancata cura.
L’abitudine a far seguire ogni scelta e ogni azione condotta negli ambiti della psichiatria dal mistificatorio aggettivo qualificativo “clinica” nei confronti di una persona con disagio relazionale diagnosticata come malata di mente, si trattasse pure dell’azione autoritaria dell’operatore sanitario che, non avendo che pesci prendere, decide di punire la persona, affidatagli in cura, sospendendogli la terapia per una settimana o per quindici giorni, può ancora essere definita “clinica” nel senso medico?
L’azione di un paio di psichiatri, preceduta da una vergognosa messa in scena mirante a creare l’occasione necessaria e utile ad una più ampia montatura, che, con finalità vendicative, si concretizza nel punire un operatore sanitario, come avrebbe molto tranquillamente punito una qualsiasi altra persona loro affidata in terapia, e per questo nel sospendere, tagliare e uccidere un fortunato gruppo terapeutico riabilitativo costituito da persone, diagnosticate malate mentali e abbondantemente provate dalla stessa psichiatria, può essere definita “clinica” se non in senso mistificatorio e senza venirci a raccontare di quanto marcio e di quanta infamia è piena anche l’attuale psichiatria? Può essere definita “clinica” senza venirci a raccontare di come, oltre che un atto di spudorato e gratuito autoritarismo, sia anche un chiaro atto di negazione della malattia mentale? Non stiamo continuando a parlare del più che noto costume clinico della psichiatria di sempre?
La difesa: “non aveva problemi fisici”. Se la malattia, intesa in senso medico e secondo la metodologia scientifica della medicina, non è una malattia del corpo, quindi fisica… che malattia è? Ecco come la medicina ha uno strapotere enorme nel dichiarare l’esistenza della malattia mentale e di negarla nello stesso tempo nella realtà di ogni giorno proprio con l’attribuire ad ogni sua azione la qualità di “clinica”. Basta classificare un’azione come “clinica” che quell’azione assume i connotati di santificante immunità, di correttezza, di qualità, di efficacia ed efficienza?
Di quell’articolo elementi d’attenzione ancora sono:
- l’articolista: «quell’uomo con problemi di disabilità psichica»; chi fa questa diagnosi se lo stesso articolista dice che il medico non l’ha curato?
- «Non manifestava […] problemi fisici.» Un’altra valutazione diagnostica che differenzia i problemi fisici da altri di diversa natura. Chi la fa se lo stesso articolista dice che il medico non l’ha curato?
- Un problema di ordine pubblico. Gli agenti ricevono una segnalazione, per esempio del tipo: c’è un uomo nudo e sdraiato al centro della carreggiata, vicino l’ospedale Buccheri La Ferla. Perché una persona nuda e sdraiata al centro della strada spinge la gente, più che a prestare aiuto e soccorso, a chiamare la polizia? Perché evidentemente c’è già una diagnosi in corso, quella creata dallo stigma, dall’etichetta diagnostica e dall’iconografia con cui la diagnosi ha imposto alla gente l’immagine della follia e con cui dalla follia l’ha allontanata. Se quello è un folle, la follia rimane un problema di ordine pubblico. Così quando vediamo un uomo nudo, sdraiato al centro della carreggiata, non ci troviamo più di fronte ad una persona che sta comunicando il suo essere ed i suoi bisogni ma ci troviamo di fronte al folle come questione d'ordine pubblico. Diventiamo carenti di tecnica, di conoscenza, di umanità, di responsabilità, di solidarietà, di comprensione, di interesse per l’altro e chiamiamo la polizia che… di follia ne sa più di noi. Mentre chi è preposto all’azione clinica, alla cura della follia arriva sempre dopo della polizia. Anche in situazioni di ventilato TSO, i sanitari, arrivati sempre dopo della polizia, pongono la loro decisione e azione clinica alla dipendenza delle forze dell’ordine: anche in quel caso l’azione, inequivocabilmente autoritaria nella sua logica, nel suo senso e significato, nel suo condursi, nel suo esprimersi, nei suoi mezzi, nella forma che prende, negli effetti che produce, rimane definita sempre come azione clinica di un scelta clinica. Arrivati dopo non perché l’emergenza ha coinvolto la polizia in prima istanza quanto perché il tipo di intervento dei sanitari era stato già molto vicino all’abbandono fino al punto che un problema dichiarato di salute si trasforma in un problema di ordine pubblico.
- Ancora siamo per strada, non siamo ancora nel tempio della medicina e la diagnosi è già fatta la dove la psichiatria ha già lavorato preventivamente. L’articolista parla di un uomo «con problemi di disabilità psichica» che «non manifesta particolari problemi fisici.» Pur se sta recitando la parte assegnatagli dallo stigma, l’articolista non sta producendo una diagnosi anche se sta facendo riferimento a delle conclusioni diagnostiche e anche se, ancora una volta, si sarebbe potuto chiedere, ma non l’ha fatto, chi sta emanando quella diagnosi e una diagnosi defferenziale se lui stesso racconta che il medico non l’ha curato. Intanto ugualmente sta già circolando un giudizio diagnostico che non sarà quello posto dal medico di pronto soccorso né quello supposto dall’articolista ma è quello prodotto preventivamente dalla medicina attraverso l’istituzione psichiatrica, possibile anche in assenza di una valutazione diagnostica.
- L’assenza di particolari problemi fisici, il fatto che medici e infermieri avessero detto: «È una nostra vecchia conoscenza», il fatto che il comportamento del medico che, secondo l’articolista, «rifiutò di visitare un paziente», forse non individuando un’urgenza (Può essere un’urgenza il fatto che uno si sdrai nudo nel mezzo di una carreggiata e che, tolto una volta, ci ritorni?), il fatto che il medico avesse affermato che l’ospedale non aveva struttura psichiatrica, lasciano concludere per una diagnosi psichiatrica ambulante e quindi per una malattia mentale. Ambulante perché sembra che tutti abbiano posto diagnosi tranne il medico che non trovò il tempo o l’opportunità per visitare quell’uomo o, piuttosto che un’altra, preferì quell’azione clinica che condusse la sua scelta più vicina all’abbandono che ad una cura. Così sembrerebbe. Ma è realmente quello che è avvenuto? No; per niente. Ci troviamo di fronte a due modalità della diagnosi di malattia mentale; una quella che ho definito “ambulante”, quella prodotta dall’intuizione della gente che osserva basantesi sui dati forniti dall’iconografia psichiatrica della follia; l’altra, che segue la stessa modalità della prima, quella intuita e prodotta dal medico del pronto soccorso.
Da quello che racconta l’articolista, nonostante le sue intenzioni e i suoi quesiti, non si evince che quel medico non abbia curato quel paziente: il comportamento di quel medico è il comportamento coerente che si ha nei confronti di «una vecchia conoscenza», nei confronti di chi è diagnosticato malato mentale una volta e lo resta per tutta la vita. Che quel comportamento sia definibile medico e deontologicamente medico è un altro paio di maniche ma quello è il comportamento, non eccezionale, che spesso possiamo osservare quando una persona che si rivolge alle strutture sanitarie è diagnosticata malata mentale; quel comportamento è parte di un progetto, di un processo, di una scelta clinica piuttosto che un’altra. Quel comportamento chiama in discussione tutta la psichiatria quale produzione di stigma, chiama a critica la stessa medicina che diagnostica malattia mentale a condizione che quella malattia rimanga in delega alla sola psichiatria.
«quell’uomo con problemi di disabilità psichica […] non manifestava particolari problemi fisici.» Non esistendo, oggettivamente, una problematica fisica ma psichica, la malattia mentale intuita è stata respinta dal medico di pronto soccorso come un problema non fisico; questi si può permettere di prendere tempo e sottolineare che l’ospedale non ha una struttura psichiatrica.
Lo “oggettivamente”? Non c’è nella follia della psichiatria il corporeo; ciò che cade sotto i nostri sensi e la nostra misurabilità; ciò che si vede, si tocca o si palpa, si ausculta, si sente. È per questo motivo che il medico, non tocca, non palpa, non ausculta, non analizza il corpo del folle. Non siamo più ai tempi del tristemente noto Cesare Lombroso le cui misurazioni craniche, alla ricerca delle anomalie dell’orecchio nei delinquenti, hanno autorizzato altri ricercatori di quella scuola, detta positivista, a compilare stravaganti statistiche sulla forma delle orecchie dei ladri e degli stupratori e ad assumere tristi scelte cliniche conseguenziali a quella teoria.
Essendo quell’uomo conosciuto come malato mentale, il medico ritiene di non doverlo sottoporre ad un esame clinico corporale non ritenendo di dover andare oltre, perché l’ospedale non ha una struttura psichiatrica, perché la follia appartiene alla psichiatria. Vi è più. Tutto quello che in quel pronto soccorso avviene, tutto quello che si fa o non si fa nei confronti di quel malato, all’attenzione dei presenti, dell’articolista che pubblica e della stessa polizia che denuncia appare più con le sembianze di una non cura che di una cura. Ecco l’azione clinica. Quella scelta che ha tutta l’apparenza del non prendersi cura non è parte delle routinarie scelte cliniche della medicina nei confronti del malato mentale?
C’è un minimo comune denominatore in tutte le malattie che permette al medico di pronto soccorso, come d’altra parte anche al medico di base, di poter fare qualcosa, di poter prendere una decisione clinica nei confronti di qualsiasi persona arrivi con una richiesta di visita al pronto soccorso, fosse pure un malato mentale.
Quel medico che sembra stesse dicendo che quella «disabilità psichica» niente ha in comune con le altre malattie, sta disattentendo ad una cura o sta prendendo una decisione clinica diversa da quelle normalmente assumibili, anche in pronto soccorso, per persone portatrici di altri tipi di malattia? Il rapporto del medico col paziente produce sempre una decisione clinica. In quanto decisa dal medico anche quella che appare come una non azione è una decisione clinica per una malattia rinviabile solo ad una struttura psichiatrica che in quell’ospedale manca. Tra la non riscontrata malattia fisica e la negata malattia mentale, la persona dov’è finita? Tutti coloro che l’hanno voluto togliere dal mezzo della carreggiata dove s’era abbandonato nella sua originaria nudità penserebbero ancora che la reiterata decisione di quell’uomo di ritornare nudo sulla carreggiata sia un atto da screditare e squalificare come sintomo di follia?
Questo discorso della sanità lascia ancora vedere come la malattia del corpo, non attribuibile alla malattia mentale, può trovare ricovero presso tutti gli altri reparti ma una persona con “disabilità psichica” non può trovare ricovero e cura se non in psichiatria, in strutture psichiatriche delle quali quell’ospedale comunque manca. Lo spazio per la follia muore e rinasce per essere sempre più simile a se stesso quale spazio d’esclusione dell’insania in un insanabile mistero.
Non siamo in pieno manicomio dove l’esclusione scacciata dalle spesse mura che la nascondevano alla vista è oggi praticata sotto gli occhi muti della gente, della scienza, dell’ineffabile, ineccepibile, inattaccabile, irreprensibile atto clinico?
Un paradosso: la gente comune ritiene quella intuita come mentale una malattia e si rivolge al pronto soccorso dove trova la medicina, la scienza medica, che, dopo aver diagnosticato malattia mentale, grida che quella mentale non esiste come malattia fisica e corporale curabile a partire anche dal pronto soccorso.
Se con i fatti e con le scelte e le azioni cliniche ci continuano a dire…:
- che la malattia mentale è un problema di ordine pubblico: si chiamano i poliziotti;
- che per la gente comune dal senso comune si tratta di una malattia: accompagnano Franco in un pronto soccorso ospedaliero;
- che si tratta di una malattia della psiche e non del corpo: anche per i sanitari del pronto soccorso era un disabile psichico ma non aveva problemi fisici;
- che un malato mentale, nonostante per la medicina la sua sia una malattia come tutte le altre, non può trovare cura e ricovero se non in un reparto, oggi, di salute mentale e comunque in una struttura psichiatrica;
- che la diagnosi di malattia mentale non la fa soltanto il medico o lo psichiatra ma la fa anche l’uomo della strada;
- che, nel diagnosticare la malattia, lo psichiatra, qualsiasi altro medico e l’uomo della strada non si comportano in modo diverso;
- che la diagnosi l’hanno fatta: quelli che hanno chiamato la polizia; la polizia che, con un intervento di ordine pubblico toglie l’uomo dalla carreggiata e lo accompagna non a casa sua ma in un pronto soccorso;
- che la diagnosi l’hanno fatta medici e infermieri non sulla base di una valutazione diagnostica ma sulla base di una pregressa anamnesi («È una nostra vecchia conoscenza.»);
- che, una volta emessa un’etichetta diagnostica, la persona diagnosticata come malata di mente lo rimane a vita;
- che la supponibile confusione di una persona, ritrovata nuda in mezzo ad una carreggiata, dovuta a possibili diverse condizioni potenzialmente riconducibili a conclusioni diagnostiche diverse e differenti, se si riscontra in una persona con una pregressa diagnosi psichiatrica è immediatamente sintomo esclusivo di malattia mentale: ogni possibilità di diagnosi differenziale sembra sia stata esclusa sia dal medico che dagli infermieri di pronto soccorso (anche l’infermiere, non escluso quello che lavora al pronto soccorso, è chiamato ad una diagnosi infermieristica necessaria ad indirizzare una scelta clinica infermieristica; che poi l’organizzazione blocca, inibisce, fino vietare la diagnosi infermieristica, è un altro paio di maniche) che, in seguito ad una pregressa anamnesi, hanno concluso che si trattasse di malattia mentale che, in quanto tale, non può essere trattata diversamente né in quel pronto soccorso, né in quell’ospedale che non ha strutture psichiatriche;
- che è la medicina stessa a negare la malattia mentale, proprio attraverso un qualche atto clinico, e con la malattia la persona stessa: considera tale malattia così tanto diversa dalle altre malattie da non ritenerla malattia fisica al punto da non potere essere curata dal medico, da non poterla curare dove si curano tutte le altre malattie, da non poterla curare se non in strutture psichiatriche;
- che, per esempio, a Palermo, quando in un pronto soccorso arriva una persona con una pregressa diagnosi psichiatrica o è conosciuta come malato mentale si richiede subito l’intervento specialistico dello psichiatra reperibile. E che c’è di meglio?
…non ci stanno per caso dicendo che la malattia mentale non esiste e non ce lo stanno dimostrando anche attraverso precise scelte cliniche?
I primi a dichiarare la sua inesistenza non sono gli squalificati come nemici della psichiatria, gli antipsichiatri e gli incompatibili ambientali di non meglio specificata natura e varietà: è proprio la medicina, anche attraverso la psichiatria, a dirlo, a sostenerlo, a praticarne e determinare le conseguenze, non con parole ma con gli atti di tutti i giorni coperti dall’attributo di “clinica”. La scienza medica che include la malattia mentale tra la nosografia e la nosologia mediche è la prima che, nella pratica di ogni giorno, fa scomparire la malattia mentale e i suoi portatori.
Annunciando il processo in corso, l’articolista, del medico imputato, si chiede: «Doveva dedicarsi a quell’uomo, con problemi di disabilità psichica ma che non manifestava particolari problemi fisici, o era più importante che proseguisse il suo lavoro?» Evidentemente, ancora una volta, è messo in dubbio che dedicarsi a quell’uomo con problemi di disabilità psichica potesse fare parte del lavoro del medico… impegnato con le più importanti e più vere malattie, quelle fisiche.
Se è importante chiedersi se tutta una serie di comportamenti di una persona, nata come dal nulla e ancora oggi inspiegabile quanto più si cerca di spiegare, sia inquadrabile nella categoria della polidefinita, ma non per questo meglio conosciuta, “malattia mentale”, l’incancrenirsi del discorso in una lotta tra fazioni lascia, oggi come nel passato, il tempo che trova. Che niente sarebbe se se non ci fosse il grave problema che si tratta di tempo lasciato alla psichiatria di continuare a fare il danno che vuole. Oltre le fazioni c’è la concreta difficoltà di affrontare le problematiche legate ad una sofferenza la cui origine, nonostante l’infinità delle ipotesi, rimane di misterica analogia con altre malattie della nosologia medica, mentre la logica delle utilità lascia mano libera ad industrie del farmaco e baronie mediche psichiatriche e la logica delle stupidità ci suggerisce di abbandonare ognuno ai propri deliri, alle proprie allucinazioni, alle proprie ossessioni, ai propri disturbi relazionali perché, pur se non saranno santificati come una volta, il loro è un viaggio tutto personale per il rispetto del quale al massimo possiamo stare solo a guardare.
In quel pronto soccorso, oltre ad essere stata negata non occasionalmente la malattia è stata negata con tutti i suoi bisogni la stessa persona che, in quanto diagnosticata come malata mentale è stata negata due volte. Per una persona potersi dire uccisa, quante volte deve essere negata?
Malattia o non malattia, oggi che i saperi, le strategie, i metodi, le sostanze chimiche, le buone pratiche inflazionano la letteratura delle professioni d’aiuto, la medicina psichiatrica si dimostra la meno adatta a portare aiuto, cura e terapia a persone con disagio relazionale e ad assumere i nuovi saperi e le buone pratiche che una qualche speranza hanno prodotto in una prospettiva di miglioramento della qualità di vita anche di persone portatrici di un grave disturbo relazionale.
Palermo 01 Dic. 2007
Fasi certamente diverse. Prima non esisteva tenuta al di là della vista dietro spesse mura; oggi non esiste lasciata scomparire dietro una inflazionata ma ignorata bibliografia che ne propone la cura dopo averla diagnosticata.
Che bisogno c’è di ricorrere ai cosiddetti antipsichiatri per fare scomparire la malattia mentale. La “malattia mentale” non la sa negare nessuno meglio di come la sa negare la psichiatria, qualche volta con la complicità dei pochi professionisti che, pur accostandosi all’umana sofferenza con spirito empatico e antiautoritario, sono schivi dal prendere chiara posizione critica contro le tante schifezze prodotte da tanta stimata psichiatria, da tanti stimati psichiatri e da tanto stimate industrie farmaceutiche. Anche in tal senso una bibliografia seria, scientifica, approfondita e attuale è reperibile e inflazionata di dati di riferimento.
La riflessione critica seguente trae spunto da un articolo uscito sul Giornale di Sicilia del 16 Nov. 2007 - «Buccheri. La difesa: non aveva problemi fisici. “Non curò disabile psichico”. Un medico rinviato a giudizio.» Non interessa a me, per quanto in questo momento mi sto chiedendo, una riflessione sul medico specifico di quell’occasione – i dati del quale sono stati comunque forniti dall’articolista - mentre per precisi riferimenti bibliografici e per comodità di lettura riporto per intero l’articolo a cui poter fare riferimento per una riflessione sul malcostume della medicina nei confronti della persona con disagio relazionale. Non ha la pretesa di una cronaca anche se si basa su un fatto di cronaca raccontato da un articolista, un certo CR. G.
È antico, ma tuttora attuale, il confronto ideologico tra chi sostiene che la malattia mentale esiste e chi sostiene che non esiste; oggi più scientifico e molto meno ideologico. C’è poi un terzo gruppo, di più furbi, ma non per questo più giustificabili come scienza, che non prende partito non trovando una base su cui fondarlo ma continua a trattare l’argomento, con i collegati benefici, senza un aperto schieramento, ma nell’abisso del dubbio, come se per l’atto clinico fosse secondario il porlo in relazione ad una malattia o ad una non malattia. Come se, per chi era accusata di stregoneria e per chi quell’accusa-diagnosi poneva nel Seicento, fosse secondario sapere se realmente le streghe esistessero o no. Questi sono quelli dello “stato dell’arte” che, escludendosi da ogni coscienza individuale e da ogni possibilità di discernimento personale giustificano ciecamente il loro operato con lo “stato dell’arte” che sostiene, a loro dire, che quella mentale sia una malattia dimenandosi tra uno psicofarmaco e una psicoterapia (sempre di origine psicoanalitica) ma senza mai sbilanciarsi né su cause, né su anatomopatologia, né sul perché si guarisce o non si guarisce, né sul perché si guarisce o non si guarisce nonostante tutto; dimenandosi tra complessità, multifattorialità causale, visioni olistiche, isomorfismo encefalo mondo esterno e terza via della psichiatria, per ridurre, dopo tutto, l’intervento all’ipotesi della difettualità biologico molecolare correggibile con un sempre disponibile farmaco di ultima generazione. Non fanno certamente caso al fatto che lo stato dell’arte, oltre a essere non limitato agli autori scelti, non ha un indirizzo univoco né è pervenuto ad una conclusione unica nemmeno per le teorie più accreditate che rimangono comunque nell’ambito delle ipotesi.
Nei confronti di pregresse dichiarazioni contrarie all’esistenza della malattia mentale, che comunque fecero parte del più ampio dibattito e della lotta che portò alla chiusura di una industria di morte come il manicomio, ci sono ancora oggi profondi portatori di odio; contro il pur minimo tentativo di porre in dubbio la malattia volontariamente ignari che il filone della medicina internazionale che dichiara che il cosiddetto disagio mentale non ha i requisiti per essere categorizzato tra le malattie, oltre ad essere di grande attualità è enormemente sostenuto.
Vittorino Andreoli, che più che essere conosciuto come antipsichiatra è ritenuto la voce della psichiatria ufficiale, dice: «L’aggiunta dell’aggettivo “malato” al sistema-encefalo o alle sue funzioni ha costituito nella storia un problema. A questo aggettivo, riferito alle funzioni encefaliche, è legata la storia della psichiatria. […] L’aggettivo malato non ha alcun significato né se viene attaccato al riduzionismo biologico né se è aggiunto a quello sociale.» (Vittorino Andreoli; L’uomo folle. La terza via della psichiatria, Prima edizione BUR Scienza ottobre 2007, Milano; pag. 225-227)
Volontariamente ignari, ciechi sul fenomeno e consensienti all’abituale misconoscimento della malattia mentale e della persona portatrice di un disagio relazionale realizzato tutti i giorni nelle strutture sanitarie in generale e in quelle della Salute Mentale in particolare, proprio da parte di chi con scrupolo, polemica puntualità e rigoroso autoritarismo si fa scientifico paladino del concetto di “malattia mentale”.
Spesso il dibattito è malposto e spesso le posizioni sono volutamente e strumentalmente fraintese fino al punto, da entrambe le parti, sostenitori e oppositori, di disattendere all’osservazione e alla denuncia proprio di quello che avviene all’interno della stessa medicina titolare della diagnosi di malattia mentale e titolare nello stesso tempo della sua estinzione per la trascuratezza o la superficialità nelle cure se non per il concreto abbandono.
Chiedersi se si tratta di una malattia, è per la psichiatria ufficiale una provocazione di lesa maestà. Il chiedersi, cercando una risposta, se il disagio relazionale è classificabile tra le categorie della malattia, quindi della patologia medica, con riguardo alla metodologia scientifica della stessa medicina, l’unica fino ad ora abilitata alla classificazione delle malattie, è il minimo che si possa fare, per ognuno che abbia per un qualche motivo a che fare con le problematiche del disagio relazionale. Mentre prende parte di una risposta affermativa, quanto ci racconta un articolista per il Giornale di Sicilia lascia emergere l’artificiosità della difesa a spada tratta da parte dei medici della psichiatria, branca della medicina, del concetto di “malattia mentale”, concetto fatto proprio dalla medicina in generale che non si fa scrupolo, nella pratica di tutti i giorni, dell’estinguersi della malattia mentale con tutto l’ammalato diagnosticato.
Note significative dall’articolo:
- «Buccheri. La difesa: non aveva problemi fisici. “Non curò disabile psichico”. Un medico rinviato a giudizio.»
- il «medico del pronto soccorso del Buccheri La Ferla, rifiutò di visitare un paziente […] con problemi di disabilità psichica […] che non manifestava particolari problemi fisici.»
- I poliziotti «Gli agenti, alle sei e mezza del mattino […] ricevettero la segnalazione della presenza di un uomo nudo e sdraiato al centro della carreggiata, proprio nei pressi del Buccheri La Ferla. L’uomo, di nome Franco, fu trovato dentro il pronto soccorso: “È una nostra vecchia conoscenza”, dissero medici e infermieri. Il disabile si allontanò ma poi tornò a spogliarsi per strada. A questo punto i poliziotti lo presero e lo riportarono al pronto soccorso, per consegnarlo ai medici, cui chiesero le generalità per annotare a chi lo avessero affidato. La D’Aubert rispose di non essere tenuta a dare le generalità per quel tipo di intervento, perché l’ospedale non aveva struttura psichiatrica.»
Potrei ritenere perfino falso l’articolo, inesistente l’articolista, inesistente il fatto e i personaggi raccontati. La stampa mi ha ormai smaliziato abbastanza sui falsi d’autore, non ultimo quello dell’anziano che ruba per fame. «27 settembre 2007 alle 09:27 — Fonte: repubblica.it […] Il quotidiano di Cagliari “L’Unione Sarda” chiede scusa per la notizia “totalmente falsa”, pubblicata martedì, del pensionato sorpreso a rubare per fame in un market.» (http://news.kataweb.it/item/358087/anziano-ruba-per-fame-l-unione-sarda-si-scusa-e-falso). Non è strano l’articolo falso di una realtà vera nei confronti della quale anche un articolo vero altro non è se non il lontano accenno di un riflesso. Eppure quell’articolo falso pone alla nostra attenzione la realtà di una condizione autentica e ancora pone a noi una domanda: oggi può essere vero che la condizione dell’anziano sia la sua riduzione a rubare per fame? La risposta non è da andare a cercare necessariamete in un articolo raccontatoci ma nell’analisi e nella presa di coscienza della realtà sociale, delle famiglie e della popolazione italiana in generale. Questa ci dice molto di più della condizione dell’anziano all’interno della società dell’opulenza e del capitale sfrenato. D’altra parte cosa mai ci potrebbe interessare il contenuto di un articolo se non per la situazione che propone alla nostra attenzione, alla presa di coscienza e all’azione: il furto ci permette di riappropriarci di tutto ciò di cui l’arroganza al potere ci espropria tutti i giorni. È possibile mai che la malattia mentale è fatta scomparire proprio da parte di chi difendendone strenuamente la diagnosi attacca autoritariamente e repressivamente ogni pur minimo tentativo di messa in dubbio della categoria “malattia” inventata in modo surrettizio per le problematiche del disagio relazionale? Perché mai chi diagnostica, gelosamente, malattia mentale è nello stesso tempo anche disponibile a farla scomparire negandola con tutta la persona dietro la sua azione protetta dell’abbondante camice della clinica?
Perché fanno scomparire la malattia mentale? La risposta sarebbe semplice: perché hanno lo stesso potere di inventarla. Non è un comportamento occasionale. Detto ciò, so anche che, quanto raccontato da quell’articolista nel Giornale di Sicilia è situazione talmente verosimile da farmi pensare a quello descritto non come ad un comportamento eccezionale o occasionale quanto ad una modalità abituale in cui si può trovare una persona che sta male e ha bisogno di aiuto dopo essere stata diagnosticata come “malato mentale” o “disabile psichico”.
Fuori dal manicheismo verità/non-verità. Uscendo dalla logica mistificatoria di verità/non verità dentro la quale ci dibattiamo con dinamiche da tribunale, come se le più atroci e sanguinarie porcherie che la società attuale ci impone dipendessero sempre da una ritrova o mancata individuazione della verità, quello che mi chiedo, di fronte a quell’articolo, è se per l’esperienza mia personale esiste o no un comportamento come quello raccontato nel caso di cronaca. Dico che non solo esiste ma che è abitudinario e che rappresenta uno dei modi in cui la medicina nega la malattia mentale.
Voglio anche riflettere e denunciare ciò che capita a noi persone in situazioni di bisogno e cosa in particolare capita quando questo bisogno è chiamato “malattia mentale”. In tal senso la prima cosa che si evince dalla dinamica del racconto è di come sia la stessa medicina a dichiarare l’inesistenza della malattia mentale. La stessa medicina che teorizza l’esistenza della malattia mentale e la diagnostica perfino. Dichiara tale inesistenza non nella teoria o nella sua bibliografia, non nei suoi libri, ma nei fatti, nella concretezza del suo operare di ogni giorno, proprio nella scelta e nell’azione clinica di ogni giorno, dopo avere gridato scandalo verso chi ha detto e dice, espressamente e senza mezzi termini, che la malattia mentale non esiste. Ne dichiara l’inesistenza proprio attraverso una scelta clinica con l’arroganza di chi, lasciando accompagnare la sua azione dall’appellativo “clinica” si ritiene immune e al riparo da ogni critica possibile.
«Il clinico, a fronte del malato, deve prendere delle decisioni:
Di quale malattia si tratta?
Sono necessari ulteriori test diagnostici?
È necessario un trattamento?
Quale trattamento?» (http://www.oncologiaumana.unito.it/merletti/Analisi%20delle%20decisioni%20cliniche.pdf)
L’atto del trattare o non trattare, se fanno parte allo stesso modo di una decisione clinica non per questo, in relazione al senso, alla logica, alle condizioni e agli effetti, sono decisioni immuni da un’analisi critica o da un sentimento critico. In relazione alla malattia mentale, per molti ferri vecchi della psichiatria ma anche per molti altri che sono solo vecchi senza mai essere stati ferri, la parola d’ordine è che qualsiasi decisione e qualsiasi azione che sia accompagnata dall’aggettivo “clinica” che la qualifica in scienza debba essere immune da critica e da parola. Detto dalla psichiatria che ha parlato veramente troppo, perfino sproloquiando, in buona o mala fede, è proprio un eccesso nella pura e semplice produzione e gestione di potere e non certo di salute.
A tal proposito si ricorda che tutte le azioni e le scelte mediche dell’alienistica a partire da quelle della buonanima di San Pinel libertore dei folli, a continuare con la psichiatria concentrazionaria fino a quella attuale del manicomio polverizzato sul territorio, sono azioni e scelte cliniche e non certo da banditori di lupìni.
Quello che si evince da quell’articolo è ancora un altro dato: c’è una causa in corso, la giustizia ha preso in mano la cosa. Questa forse troverà ragione per il medico; forse per la struttura sanitaria; forse per Franco scomparso con tutta la sua malattia; forse per i poliziotti che, normalmente scontati e giurati difensori dell’istituzione, si sono sentiti perfino offesi da quel medico. Quello che da un tribunale mai si evincerà è come la medicina fa scomparire tutti i giorni la malattia mentale dopo averla diagnosticata.
Sono in tanti anche i medici, e i medici della psichiatria, che, se sono disposti a dichiarare il disagio relazionale condizione non compatibile con il meglio definito concetto anatomopatologico di malattia di derivazione della scienza medica, sono anche disposti a proclamarne l’analogia fino all’uguaglianza e all’identità.Emergenza di quell’articolo è la denuncia, oltre l’ormai socialmente sopito confronto polemico delle posizioni, del dissolvere della malattia mentale da parte della medicina dopo averla diagnosticata; la denuncia di come la medicina, attraverso i sanitari in generale e attraverso gli psichiatri in particolare faccia scomparire la malattia mentale dopo averne dichiarato l’esistenza e dopo averla diagnosticata.
Fenomeno non nuovo: tutti i trattamenti ha ricevuto il folle tranne quello del malato, della persona con una seria patologia. Prima, dall’alienistica alla psichiatria, passando per la pseudoscientifica frenologia del medico tedesco Franz Joseph Gall (1758 - 1828), in seguito la psichiatria quale specialità della medicina hanno di fatto realizzato la scomparsa della malattia mentale dopo averla diagnosticata. Questa modalità di annientamento della dichiarata malattia con dissolvenza della stessa persona è il vero comportamento del quale la psichiatria è principale responsabile. Non c’è bisogno di negare la malattia mentale la dove questa è stata da sempre negata dalla psichiatria. Altra cosa è il ritrovare la persona con i suoi bisogni oltre l’etichetta diagnostica e lo stigma psichiatrico.
Non entra nel dilemma esistenza/non esistenza della malattia, mentre quell’articolo offre la possibilità di cogliere come realmente, col negare la malattia, è negata anche la persona proprio da parte della medicina che afferma e rivendica a pieno titolo l’esistenza della malattia mentale.
Una vecchia conoscenza. La scienza medica per uscire dalla teoria deve esplicarsi e realizzarsi attraverso le strutture sanitarie. Quando arriva una persona con il diabete, anche se si tratta di una vecchia conoscenza, è pensabile che in un pronto soccorso esista un protocollo di comportamento che consente alla persona di ricevere, dopo un’attenta anamnesi e una valutazione, soccorso, cura, una diagnosi, una terapia. Si sa; il diabete è una malattia e nessun medico di pronto soccorso si sogna, o almeno così dovrebbe essere, di non curare una persona con diabete sostenendo che in quell’ospedale non c’è il reparto o un centro di diabetologia. Il diabete è usualmente anche una malattia di paragone con la malattia mentale; lo psichiatra, dopo avere diagnosticato una malattia mentale, senza con questo averci necessariamente detto quale (ci sono persone che non hanno una diagnosi dopo anni di frequentazione psichiatrica o che se la sono vista cambiare più volte), dice al suo paziente: come per il diabete la tua malattia mentale ha bisogno di un’assunzione farmacologica a vita. Malattie paragonabili solo nel senso che lo psichiatra ha deciso, perché, per altri versi, quando in un pronto soccorso arriva una persona con una pregressa diagnosi di malattia mentale, diversamente dalla persona con il diabete può non trovare cura, può non ricevere un ricovero perché in quell’ospedale non c’è una struttura psichiatrica, può non avere una diagnosi perché, essendo magari una vecchia conoscenza, uno che già è stato diagnosticato “malato di mente” rimane aprioristicamente in quella categoria per tutta la vita, in ogni occasione e ovunque si trovasse.
Un paragone o un’analogia arbitrariamente forzate che, se con tutta la buona volontà potessero far pensare ad una bugia pietosa, non possono distrarre dal fatto che nella persona con diabete c’è qualcosa da misurare, dei parametri con cui confrontarsi, delle analisi eventualmente da eseguire, mentre nessun parametro misurabile e nessun esame sul corpo è previsto per la malattia mentale. È questo uno dei modi della sanità per cui spesso, in un pronto soccorso, il medico di guardia altro non fa che posteggiare il paziente in attesa dello psichiatra reperibile.
Non si deve sottovalutare che tutto quanto in quell’articolo si evince se non è critica di una scelta clinica non è nemmeno solo critica del medico o della struttura, senza lesa maestà o violazione del santo sepolcro dove ancora deve rimanere chiusa la relazione medicina-malattia mentale, ma è essenzialmente critica di un costume che si serve di strumenti, azione clinica compresa, i cui effetti sono la scomparsa della malattia mentale. Una cosa è dire che il medico non curò un disabile psichico, altra cosa è dire che il suo comportamento è stato espressione di una scelta clinica. Quello che dice il medico in situazioni simili. Anche quelle manicomiali, anche quelle della peggiore psichiatria erano scelte cliniche. Si vede che le scelte cliniche anche dell’attuale psichiatria sono molto vicine ad essere lette come mancata cura.
L’abitudine a far seguire ogni scelta e ogni azione condotta negli ambiti della psichiatria dal mistificatorio aggettivo qualificativo “clinica” nei confronti di una persona con disagio relazionale diagnosticata come malata di mente, si trattasse pure dell’azione autoritaria dell’operatore sanitario che, non avendo che pesci prendere, decide di punire la persona, affidatagli in cura, sospendendogli la terapia per una settimana o per quindici giorni, può ancora essere definita “clinica” nel senso medico?
L’azione di un paio di psichiatri, preceduta da una vergognosa messa in scena mirante a creare l’occasione necessaria e utile ad una più ampia montatura, che, con finalità vendicative, si concretizza nel punire un operatore sanitario, come avrebbe molto tranquillamente punito una qualsiasi altra persona loro affidata in terapia, e per questo nel sospendere, tagliare e uccidere un fortunato gruppo terapeutico riabilitativo costituito da persone, diagnosticate malate mentali e abbondantemente provate dalla stessa psichiatria, può essere definita “clinica” se non in senso mistificatorio e senza venirci a raccontare di quanto marcio e di quanta infamia è piena anche l’attuale psichiatria? Può essere definita “clinica” senza venirci a raccontare di come, oltre che un atto di spudorato e gratuito autoritarismo, sia anche un chiaro atto di negazione della malattia mentale? Non stiamo continuando a parlare del più che noto costume clinico della psichiatria di sempre?
La difesa: “non aveva problemi fisici”. Se la malattia, intesa in senso medico e secondo la metodologia scientifica della medicina, non è una malattia del corpo, quindi fisica… che malattia è? Ecco come la medicina ha uno strapotere enorme nel dichiarare l’esistenza della malattia mentale e di negarla nello stesso tempo nella realtà di ogni giorno proprio con l’attribuire ad ogni sua azione la qualità di “clinica”. Basta classificare un’azione come “clinica” che quell’azione assume i connotati di santificante immunità, di correttezza, di qualità, di efficacia ed efficienza?
Di quell’articolo elementi d’attenzione ancora sono:
- l’articolista: «quell’uomo con problemi di disabilità psichica»; chi fa questa diagnosi se lo stesso articolista dice che il medico non l’ha curato?
- «Non manifestava […] problemi fisici.» Un’altra valutazione diagnostica che differenzia i problemi fisici da altri di diversa natura. Chi la fa se lo stesso articolista dice che il medico non l’ha curato?
- Un problema di ordine pubblico. Gli agenti ricevono una segnalazione, per esempio del tipo: c’è un uomo nudo e sdraiato al centro della carreggiata, vicino l’ospedale Buccheri La Ferla. Perché una persona nuda e sdraiata al centro della strada spinge la gente, più che a prestare aiuto e soccorso, a chiamare la polizia? Perché evidentemente c’è già una diagnosi in corso, quella creata dallo stigma, dall’etichetta diagnostica e dall’iconografia con cui la diagnosi ha imposto alla gente l’immagine della follia e con cui dalla follia l’ha allontanata. Se quello è un folle, la follia rimane un problema di ordine pubblico. Così quando vediamo un uomo nudo, sdraiato al centro della carreggiata, non ci troviamo più di fronte ad una persona che sta comunicando il suo essere ed i suoi bisogni ma ci troviamo di fronte al folle come questione d'ordine pubblico. Diventiamo carenti di tecnica, di conoscenza, di umanità, di responsabilità, di solidarietà, di comprensione, di interesse per l’altro e chiamiamo la polizia che… di follia ne sa più di noi. Mentre chi è preposto all’azione clinica, alla cura della follia arriva sempre dopo della polizia. Anche in situazioni di ventilato TSO, i sanitari, arrivati sempre dopo della polizia, pongono la loro decisione e azione clinica alla dipendenza delle forze dell’ordine: anche in quel caso l’azione, inequivocabilmente autoritaria nella sua logica, nel suo senso e significato, nel suo condursi, nel suo esprimersi, nei suoi mezzi, nella forma che prende, negli effetti che produce, rimane definita sempre come azione clinica di un scelta clinica. Arrivati dopo non perché l’emergenza ha coinvolto la polizia in prima istanza quanto perché il tipo di intervento dei sanitari era stato già molto vicino all’abbandono fino al punto che un problema dichiarato di salute si trasforma in un problema di ordine pubblico.
- Ancora siamo per strada, non siamo ancora nel tempio della medicina e la diagnosi è già fatta la dove la psichiatria ha già lavorato preventivamente. L’articolista parla di un uomo «con problemi di disabilità psichica» che «non manifesta particolari problemi fisici.» Pur se sta recitando la parte assegnatagli dallo stigma, l’articolista non sta producendo una diagnosi anche se sta facendo riferimento a delle conclusioni diagnostiche e anche se, ancora una volta, si sarebbe potuto chiedere, ma non l’ha fatto, chi sta emanando quella diagnosi e una diagnosi defferenziale se lui stesso racconta che il medico non l’ha curato. Intanto ugualmente sta già circolando un giudizio diagnostico che non sarà quello posto dal medico di pronto soccorso né quello supposto dall’articolista ma è quello prodotto preventivamente dalla medicina attraverso l’istituzione psichiatrica, possibile anche in assenza di una valutazione diagnostica.
- L’assenza di particolari problemi fisici, il fatto che medici e infermieri avessero detto: «È una nostra vecchia conoscenza», il fatto che il comportamento del medico che, secondo l’articolista, «rifiutò di visitare un paziente», forse non individuando un’urgenza (Può essere un’urgenza il fatto che uno si sdrai nudo nel mezzo di una carreggiata e che, tolto una volta, ci ritorni?), il fatto che il medico avesse affermato che l’ospedale non aveva struttura psichiatrica, lasciano concludere per una diagnosi psichiatrica ambulante e quindi per una malattia mentale. Ambulante perché sembra che tutti abbiano posto diagnosi tranne il medico che non trovò il tempo o l’opportunità per visitare quell’uomo o, piuttosto che un’altra, preferì quell’azione clinica che condusse la sua scelta più vicina all’abbandono che ad una cura. Così sembrerebbe. Ma è realmente quello che è avvenuto? No; per niente. Ci troviamo di fronte a due modalità della diagnosi di malattia mentale; una quella che ho definito “ambulante”, quella prodotta dall’intuizione della gente che osserva basantesi sui dati forniti dall’iconografia psichiatrica della follia; l’altra, che segue la stessa modalità della prima, quella intuita e prodotta dal medico del pronto soccorso.
Da quello che racconta l’articolista, nonostante le sue intenzioni e i suoi quesiti, non si evince che quel medico non abbia curato quel paziente: il comportamento di quel medico è il comportamento coerente che si ha nei confronti di «una vecchia conoscenza», nei confronti di chi è diagnosticato malato mentale una volta e lo resta per tutta la vita. Che quel comportamento sia definibile medico e deontologicamente medico è un altro paio di maniche ma quello è il comportamento, non eccezionale, che spesso possiamo osservare quando una persona che si rivolge alle strutture sanitarie è diagnosticata malata mentale; quel comportamento è parte di un progetto, di un processo, di una scelta clinica piuttosto che un’altra. Quel comportamento chiama in discussione tutta la psichiatria quale produzione di stigma, chiama a critica la stessa medicina che diagnostica malattia mentale a condizione che quella malattia rimanga in delega alla sola psichiatria.
«quell’uomo con problemi di disabilità psichica […] non manifestava particolari problemi fisici.» Non esistendo, oggettivamente, una problematica fisica ma psichica, la malattia mentale intuita è stata respinta dal medico di pronto soccorso come un problema non fisico; questi si può permettere di prendere tempo e sottolineare che l’ospedale non ha una struttura psichiatrica.
Lo “oggettivamente”? Non c’è nella follia della psichiatria il corporeo; ciò che cade sotto i nostri sensi e la nostra misurabilità; ciò che si vede, si tocca o si palpa, si ausculta, si sente. È per questo motivo che il medico, non tocca, non palpa, non ausculta, non analizza il corpo del folle. Non siamo più ai tempi del tristemente noto Cesare Lombroso le cui misurazioni craniche, alla ricerca delle anomalie dell’orecchio nei delinquenti, hanno autorizzato altri ricercatori di quella scuola, detta positivista, a compilare stravaganti statistiche sulla forma delle orecchie dei ladri e degli stupratori e ad assumere tristi scelte cliniche conseguenziali a quella teoria.
Essendo quell’uomo conosciuto come malato mentale, il medico ritiene di non doverlo sottoporre ad un esame clinico corporale non ritenendo di dover andare oltre, perché l’ospedale non ha una struttura psichiatrica, perché la follia appartiene alla psichiatria. Vi è più. Tutto quello che in quel pronto soccorso avviene, tutto quello che si fa o non si fa nei confronti di quel malato, all’attenzione dei presenti, dell’articolista che pubblica e della stessa polizia che denuncia appare più con le sembianze di una non cura che di una cura. Ecco l’azione clinica. Quella scelta che ha tutta l’apparenza del non prendersi cura non è parte delle routinarie scelte cliniche della medicina nei confronti del malato mentale?
C’è un minimo comune denominatore in tutte le malattie che permette al medico di pronto soccorso, come d’altra parte anche al medico di base, di poter fare qualcosa, di poter prendere una decisione clinica nei confronti di qualsiasi persona arrivi con una richiesta di visita al pronto soccorso, fosse pure un malato mentale.
Quel medico che sembra stesse dicendo che quella «disabilità psichica» niente ha in comune con le altre malattie, sta disattentendo ad una cura o sta prendendo una decisione clinica diversa da quelle normalmente assumibili, anche in pronto soccorso, per persone portatrici di altri tipi di malattia? Il rapporto del medico col paziente produce sempre una decisione clinica. In quanto decisa dal medico anche quella che appare come una non azione è una decisione clinica per una malattia rinviabile solo ad una struttura psichiatrica che in quell’ospedale manca. Tra la non riscontrata malattia fisica e la negata malattia mentale, la persona dov’è finita? Tutti coloro che l’hanno voluto togliere dal mezzo della carreggiata dove s’era abbandonato nella sua originaria nudità penserebbero ancora che la reiterata decisione di quell’uomo di ritornare nudo sulla carreggiata sia un atto da screditare e squalificare come sintomo di follia?
Questo discorso della sanità lascia ancora vedere come la malattia del corpo, non attribuibile alla malattia mentale, può trovare ricovero presso tutti gli altri reparti ma una persona con “disabilità psichica” non può trovare ricovero e cura se non in psichiatria, in strutture psichiatriche delle quali quell’ospedale comunque manca. Lo spazio per la follia muore e rinasce per essere sempre più simile a se stesso quale spazio d’esclusione dell’insania in un insanabile mistero.
Non siamo in pieno manicomio dove l’esclusione scacciata dalle spesse mura che la nascondevano alla vista è oggi praticata sotto gli occhi muti della gente, della scienza, dell’ineffabile, ineccepibile, inattaccabile, irreprensibile atto clinico?
Un paradosso: la gente comune ritiene quella intuita come mentale una malattia e si rivolge al pronto soccorso dove trova la medicina, la scienza medica, che, dopo aver diagnosticato malattia mentale, grida che quella mentale non esiste come malattia fisica e corporale curabile a partire anche dal pronto soccorso.
Se con i fatti e con le scelte e le azioni cliniche ci continuano a dire…:
- che la malattia mentale è un problema di ordine pubblico: si chiamano i poliziotti;
- che per la gente comune dal senso comune si tratta di una malattia: accompagnano Franco in un pronto soccorso ospedaliero;
- che si tratta di una malattia della psiche e non del corpo: anche per i sanitari del pronto soccorso era un disabile psichico ma non aveva problemi fisici;
- che un malato mentale, nonostante per la medicina la sua sia una malattia come tutte le altre, non può trovare cura e ricovero se non in un reparto, oggi, di salute mentale e comunque in una struttura psichiatrica;
- che la diagnosi di malattia mentale non la fa soltanto il medico o lo psichiatra ma la fa anche l’uomo della strada;
- che, nel diagnosticare la malattia, lo psichiatra, qualsiasi altro medico e l’uomo della strada non si comportano in modo diverso;
- che la diagnosi l’hanno fatta: quelli che hanno chiamato la polizia; la polizia che, con un intervento di ordine pubblico toglie l’uomo dalla carreggiata e lo accompagna non a casa sua ma in un pronto soccorso;
- che la diagnosi l’hanno fatta medici e infermieri non sulla base di una valutazione diagnostica ma sulla base di una pregressa anamnesi («È una nostra vecchia conoscenza.»);
- che, una volta emessa un’etichetta diagnostica, la persona diagnosticata come malata di mente lo rimane a vita;
- che la supponibile confusione di una persona, ritrovata nuda in mezzo ad una carreggiata, dovuta a possibili diverse condizioni potenzialmente riconducibili a conclusioni diagnostiche diverse e differenti, se si riscontra in una persona con una pregressa diagnosi psichiatrica è immediatamente sintomo esclusivo di malattia mentale: ogni possibilità di diagnosi differenziale sembra sia stata esclusa sia dal medico che dagli infermieri di pronto soccorso (anche l’infermiere, non escluso quello che lavora al pronto soccorso, è chiamato ad una diagnosi infermieristica necessaria ad indirizzare una scelta clinica infermieristica; che poi l’organizzazione blocca, inibisce, fino vietare la diagnosi infermieristica, è un altro paio di maniche) che, in seguito ad una pregressa anamnesi, hanno concluso che si trattasse di malattia mentale che, in quanto tale, non può essere trattata diversamente né in quel pronto soccorso, né in quell’ospedale che non ha strutture psichiatriche;
- che è la medicina stessa a negare la malattia mentale, proprio attraverso un qualche atto clinico, e con la malattia la persona stessa: considera tale malattia così tanto diversa dalle altre malattie da non ritenerla malattia fisica al punto da non potere essere curata dal medico, da non poterla curare dove si curano tutte le altre malattie, da non poterla curare se non in strutture psichiatriche;
- che, per esempio, a Palermo, quando in un pronto soccorso arriva una persona con una pregressa diagnosi psichiatrica o è conosciuta come malato mentale si richiede subito l’intervento specialistico dello psichiatra reperibile. E che c’è di meglio?
…non ci stanno per caso dicendo che la malattia mentale non esiste e non ce lo stanno dimostrando anche attraverso precise scelte cliniche?
I primi a dichiarare la sua inesistenza non sono gli squalificati come nemici della psichiatria, gli antipsichiatri e gli incompatibili ambientali di non meglio specificata natura e varietà: è proprio la medicina, anche attraverso la psichiatria, a dirlo, a sostenerlo, a praticarne e determinare le conseguenze, non con parole ma con gli atti di tutti i giorni coperti dall’attributo di “clinica”. La scienza medica che include la malattia mentale tra la nosografia e la nosologia mediche è la prima che, nella pratica di ogni giorno, fa scomparire la malattia mentale e i suoi portatori.
Annunciando il processo in corso, l’articolista, del medico imputato, si chiede: «Doveva dedicarsi a quell’uomo, con problemi di disabilità psichica ma che non manifestava particolari problemi fisici, o era più importante che proseguisse il suo lavoro?» Evidentemente, ancora una volta, è messo in dubbio che dedicarsi a quell’uomo con problemi di disabilità psichica potesse fare parte del lavoro del medico… impegnato con le più importanti e più vere malattie, quelle fisiche.
Se è importante chiedersi se tutta una serie di comportamenti di una persona, nata come dal nulla e ancora oggi inspiegabile quanto più si cerca di spiegare, sia inquadrabile nella categoria della polidefinita, ma non per questo meglio conosciuta, “malattia mentale”, l’incancrenirsi del discorso in una lotta tra fazioni lascia, oggi come nel passato, il tempo che trova. Che niente sarebbe se se non ci fosse il grave problema che si tratta di tempo lasciato alla psichiatria di continuare a fare il danno che vuole. Oltre le fazioni c’è la concreta difficoltà di affrontare le problematiche legate ad una sofferenza la cui origine, nonostante l’infinità delle ipotesi, rimane di misterica analogia con altre malattie della nosologia medica, mentre la logica delle utilità lascia mano libera ad industrie del farmaco e baronie mediche psichiatriche e la logica delle stupidità ci suggerisce di abbandonare ognuno ai propri deliri, alle proprie allucinazioni, alle proprie ossessioni, ai propri disturbi relazionali perché, pur se non saranno santificati come una volta, il loro è un viaggio tutto personale per il rispetto del quale al massimo possiamo stare solo a guardare.
In quel pronto soccorso, oltre ad essere stata negata non occasionalmente la malattia è stata negata con tutti i suoi bisogni la stessa persona che, in quanto diagnosticata come malata mentale è stata negata due volte. Per una persona potersi dire uccisa, quante volte deve essere negata?
Malattia o non malattia, oggi che i saperi, le strategie, i metodi, le sostanze chimiche, le buone pratiche inflazionano la letteratura delle professioni d’aiuto, la medicina psichiatrica si dimostra la meno adatta a portare aiuto, cura e terapia a persone con disagio relazionale e ad assumere i nuovi saperi e le buone pratiche che una qualche speranza hanno prodotto in una prospettiva di miglioramento della qualità di vita anche di persone portatrici di un grave disturbo relazionale.
Palermo 01 Dic. 2007
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