Gianna Schiavetti
Diario
Edizione: Stampa Alternativa/ Nuovi Equilibri
Pavona (Roma), Giugno 2008
Collana: Eretica
pp. 112
Prezzo: 10,00
Gianna Schiavetti scrive dei “pizzini” che lancia fuori dalla gabbia. Mai raccolti prima, finalmente arrivano proprio nelle mani di uno psichiatra. Pubblica un Diario con la prefazione di Enrico Baraldi. La relazione tra i due non si spiega se non per la mediazione di una diagnosi di “malattia mentale”: dove c’è uno psichiatra c’è una “malattia mentale”. Urla senza suono. Gianna si chiede: folle sì ma in catene per chi? Ha compreso che la Psichiatria non può essere ricercata, rintracciata né raccontata nell’iconografia di ieri, così decide di andarla a rintracciare su quei volti che si assomigliano tutti come tutte si assomigliano le narrazioni dei luoghi dell’Istituzione. Uno di quei volti è il suo. Esprime un problema ma anche un bisogno, quello di essere creduta, e che si potesse avere in lei fiducia, ma aveva anche bisogno di potersi fidare. E di chi? Senza mezzi termini denuncia i trattamenti come «attentati terroristici.» Tutto quello che hanno fatto è comunque stato possibile perché garantito dall’Università, dalla Scienza Medica, dalla professione medica, dall’Ordine dei medici, dalla Psichiatria, dalle leggi e dalla giustizia di Stato. Ha capito che qualsiasi cosa faccia uno psichiatra, che passi per pratica terapeutica di cui è responsabile, nessuno può opporgli obiezioni. Gianna ci dice allora ancora una cosa: la relazione con la Psichiatria non può essere messa sul piano della legge (perché è propriamente secondo legge: anche i TSO si fanno per legge); né sul piano della giustizia (è secondo la giustizia di Stato) né sul piano dello Stato (non esiste una Psichiatria non di Stato). È una tragedia: cercare aiuto contro l’aiuto portato dalla Psichiatria. Ma si può? Non è questa una situazione allucinatoria? Chi leggeva le lettere e le denunce di Gianna dava credibilità all’Istituzione della Salute Mentale e non certo a Gianna folle diagnosticata che, più che di Istituzione per la Tutela della Salute Mentale, raccontava di un’Istituzione del Male Mentale. Lo psichiatra Baraldi dice: di Gianna vi potete fidare, stiamo raccontando non il delirio ma la realtà di una persona nei Dipartimenti di Salute Mentale attuali. Scrivere tutto quello che succede, tutto quello che mi fanno, con la speranza che lo scritto possa finalmente arrivare nelle mani di qualcuno che, finalmente, farà giustizia. «Sono anni che lotto da sola perché non esistono avvocati per aiutare le persone costrette al TSO.» Un paradosso che diventa motivo per il quale noi oggi possiamo sapere cosa hanno fatto a Gianna. Cosa succedeva che nessuna Anti-psichiatria poté arrivare prima della Psichiatria. Era una dissidente? Quali erano i bisogni di Gianna per i quali nessuno riuscì a proporre soluzione se non la Psichiatria? La sua denuncia è rivolta al fatto che, pur considerata dagli psichiatri “malattia”, pur avendo lei accettato che di “malattia” si trattasse, più che un trattamento sanitario, come per tutte le altre malattie, lei abbia dovuto subire anni di vero e proprio mal-trattamento sanitario; durato lunghi anni e senza possibilità di difesa alcuna. Il problema attuale non sembra allora dare o no fiducia alla cartella sanitaria ma è quello di capire come, nonostante tutto, trasformare la stessa cartella da oggetto di nascondimento a strumento di disvelamento della Psichiatria dei Dipartimenti. Il cancello del manicomio diffuso sul territorio si era chiuso sulle spalle di Gianna e non solo. Si ripropone un problema di iconografia, di immagini, di figure, di moduli, di segni attraverso i quali il manicomio si presenta a noi oggi. Rintracciabile non è più negli oggetti, nelle strutture, nelle forme esteriori, nelle costruzioni, nelle mura, nelle pietre, nelle sezioni, nelle camerate ma dentro i servizi, dentro le promesse non mantenute, dentro i progetti non realizzati, dentro le industrie farmaceutiche, dentro le numerose strutture private, dentro le cliniche, dentro le famiglie e su quei volti che si assomigliano tutti. Ma Gianna aveva perdonato anche i tedeschi e anche il nonno. Le atrocità della Psichiatria non le poteva perdonare. E se una malattia non è malattia medica che malattia è? “malattia” dell’anima? “malattia” dello spirito? “malattia” della mente? “malattia” della psiche? Ma è una questione e un problema di “malattia” sì o “malattia” no? No, non lo è. Nemmeno oggi come non lo è mai stato. La necessità è quella di una rete che non costruisca spazi dove rinchiudere le persone il cui comportamento può essere poco comprensibile ai nostri limiti, ma occasioni miranti a rendere ogni spazio della comunità e ogni relazione umana autenticamente compatibile con la vita, con la salute, con la dignità della persona, con la sua libertà e terapeutica e curativa per quelle persone che tendono a perdere o che abbiano perso la salute. Non accenderei un lumino per uno psichiatra a cui avessero sparato se ritenuto responsabile della violenza di un TSO. Baraldi mettendosi a fianco di Gianna sta contribuendo a portare fuori dai cancelli quello che succede dietro i cancelli dei Dipartimenti, aiutando tutti noi a capire quale forma è andato prendendo man mano il trattamento dipartimentale. In un clima «di coercizione più che di cura» dove le persone come Gianna hanno le idee chiare sulla Psichiatria, uno sguardo anche solo un poco più attento è affettivamente più pregnante e più agevole all’aiuto. È importante chiamare le cose con il proprio nome e non certo con il nome “malattia” per il quale la scienza non ha trovato elementi per poter tenere a battesimo una serie di fenomeni numerosa quanto numerose sono le persone che quel fenomeno vivono. L’incapacità di una reale risposta autonoma e autogestita alla nostra sofferenza nonostante le multicolorate anti-psichiatrie. Una logica deterministica nega la persona e la sua sofferenza smarrendo la possibilità di occasioni realmente alternative alla medicalizzazione. Le persone che non hanno malattia, quindi non hanno sofferenza, (la sofferenza c’è se hanno una malattia, ma visto che non hanno una malattia non c’è nemmeno sofferenza) sono quelle che più finiscono in Psichiatria sia su propria richiesta che in modo coattivo. Rompere col corredo genetico che governa tutto l’agire psichiatrico significa anche cambiare non solo pelle ma cambiare totalmente logica, comportamento, ma anche alleanze. La lotta per la chiusura dei manicomi, sfociata nella “180” che, mai realizzata, è sfociata in un riciclaggio della Psichiatria nei Dipartimenti di Salute Mentale, ha dimostrato che più che un problema di legge, comunque sempre ignorata, il problema sta nell’aver mantenuto il Disagio Relazionale nell’ambito della totale medicalizzazione. Gianna ci indica che è necessaria una lotta diversa da quella che si concluse con la “180”. (Leggi recensione)