martedì 27 ottobre 2015

LA FOLLIA DELLA CAPPELLA





 «I protagonisti sorpresi in cappella dall’obiettivo fotografico erano “tarantati” (…) molti di loro avevano celebrato nei rispettivi domicili un rito singolare: mediante il vibrante simbolismo della musica, della danza e dei colori si erano sottoposti all’esorcismo della taranta, il cui morso immergeva in un mortale languore o in una disperata agitazione senza orizzonte.»
(De Martino, 1961.)


Non doveva essere malattia al punto che, nemmeno di fronte ad un’eclatante sintomatologia descritta dallo stesso de Martino pur di natura delirante allucinatoria, nemmeno uno psichiatra poté essere messo alla direzione dell’équipe che richiedeva, per autoreferenzialità, un Etnologo e uno Storico delle religioni, professioni corrispondenti ad un medesimo personaggio. Intanto sul biglietto da visita di Luigi Stifani era scritto: “dottore di tarantismo”. E non aveva ragione? Certamente una ragione diversa da quella di de Martino ma sempre ragione aveva. D’altra parte, per l’autore di quel monumento alla Psichiatria, il Tarantolismo ritornava, dopo una dichiarata opposizione a quell’ipotesi, ad essere solo una diversa malattia o solo una malattia la cui causa era interpretata diversamente che come effetto del veleno d’un ragno. Se nella teoria interpretativa dello Storico delle religioni, sospesa la ritualità musicale-coreutica, la sintomatologia appariva nella sua verità di natura neuropsichiatrica, allora Stifani con le sue musiche doveva essere posto in analogia con lo psichiatra che vedeva slatentizzare la malattia se non controllata dallo psicofarmaco.
Ingannati da una simulazione, al punto che era loro apparsa espressione di una sintomatologia clinica, mi chiedo com’è che tutti gli studiosi del Tarantolismo precedenti non avevano nemmeno lontanamente intuito la necessità, anche quando dubbiosi, di andare a sorprendere i simulatori lì dove il loro inganno non si sarebbe potuto più nascondere. Forse solo per il fatto che non disponevano ancora di un modello che consentiva loro di interpretare la ritualità musicale-coreutica in analogia col meccanismo dello psicofarmaco. D’altra parte è solo negli anni Cinquanta che si ha una svolta, tutt’ora galoppante, con i neurolettici ed è del ’59 quello che appare il debutto da parte di de Martino di un’interpretazione, con molta probabilità, sottesa dall’idea di un’analogia tra il meccanismo ad intermittenza dello psicofarmaco e quello della ritualità musicale-coreutica risolutiva del “tarantismo”. Questa volta siamo proprio nelle illazioni del delirio dove tutto fila liscio al riparo di inquietanti quesiti.
Negli anni Cinquanta, dalla scoperta della Clorpromazina fino al 1958 con la scoperta dell’Aloperidolo, la Neuropsichiatria, differenziatasi dalla Psichiatria come Neurologia solo negli anni Settanta, incominciava a galoppare sui neurolettici evidenziando molto spesso un meccanismo dello psicofarmaco definibile ad interruttore: durante la somministrazione la sintomatologia veniva controllata dal farmaco sospeso il quale la malattia, e comunque la sintomatologia, si evidenziava in tutta la sua pregnanza. Tale fenomeno lasciava concludere che senza il farmaco la malattia ritornava. Tale evidenza è ciò che rappresentava la consapevolezza della Neuropsichiatria a partire dagli anni Cinquanta. La cappella di Galatina era un momento in cui, utilizzando un modello analogico di pensiero, il “tarantismo”, ormai privato della funzione di controllo e latentizzante attribuibile alla ritualità musicale-coreutica, poteva essere osservato nella sua essenza di malattia mentale slatentizzata. Con lo stesso meccanismo il quesito slatentizza la malattia dell’interpretazione.

È di prossima uscita il volume:

giovedì 30 luglio 2015

RETABLO DELLA TARANTOLA






Con Retablo della Tarantola ho voluto mettere alla prova l’idea di voler capire qualcosa sul Tarantolismo dietro cui, ancora fino agli anni Cinquanta, pur se non avevano ballato in seguito a “morso” di ragno, erano impazziti medici e studiosi vari. Ma ormai ci voleva poco. Dovevano aspettare il ’59, l’anno del lume sulla Tarantola. Non credo però d’essere riuscito nel mio intendo anche se sono convinto che quel lume, assieme alla luce, abbia solo diversamente messo in ombra la complessità del fenomeno. Ho solo provato a seguire un percorso e un processo che lasciavano intravedere una qualche possibilità di comprendere qualcosa attraverso la consultazione bibliografica e in relazione all’opera ritenuta fondamentale sul fenomeno: La terra del rimorso. In tutto ciò mi ha accompagnato un sospetto che, anche se qualche volta appare diversamente, non vuole però mai arrivare nemmeno al livello di ipotesi; il sospetto che il Latrodectus avesse qualche responsabilità. Sospetto che se già aveva interessato seri e profondi studiosi presto dichiarerà che anche loro avevano erroneamente concluso. Non essendomi posto l’obiettivo di disvelare il Tarantolismo dico pure, al di là d’ogni pudore, che non credo di averci capito qualcosa. Dubbio che mi preme proprio dichiarare per il fatto che sono stati tanti di quelli che ho incontrato che hanno avuto la pretesa d’aver capito il fenomeno e di volercelo definitivamente raccontare e disvelare. A quanto pare nessuno, proprio nessuno, da millenni, aveva capito niente. Né quelli che erano stati punti né quelli che si credevano punti ma non lo erano, né quelli che, da competenti, s’erano posti allo studio del fenomeno. Dovevo allora partire da chi veramente aveva capito il fenomeno, da Ernesto de Martino. Non è stato l’unico dagli anni Cinquanta in poi ma è proprio l’Etnologo che ha finalmente capito cosa fosse la Tarantola fino a creare un monumento alla “taranta”. E da chi se non da lui? Proprio da lì dovevo partire non potendomi fidare di tutte le promesse che i vari scrittori dell’argomento avevano anticipato ma non mantenuto. L’occasione non me la sono cercata ma me l’hanno donata, a diverso motivo, i miei due amici pugliesi, Franco e Mino, ai quali va tutta la mia stima e il mio ringraziamento. Perché proprio da de Martino? Questa è un’altra questione. Nei riferimenti d’un luminare della Psichiatria palermitana era nata una promessa. L’ho voluta mantenere.

A presto.
Gaetano Bonanno

sabato 18 ottobre 2014

IL BALLO DELLA TARANTOLA




in

SUPERSTIZIONI PREGIUDIZI E TRADIZIONI

In Terra D’Otranto, con un’aggiunta di Canti e Fiabe Popolari

Giuseppe Gigli
Firenze - Tipografia di G. Barbèra - 1893


Mi piacerebbe certo capire com’è che la coscienza individuale e l’inconscio collettivo di quelle povere femminucce del popolo pugliese potessero ritrovarsi nello stesso calderone miasmatico della coscienza individuale e dell’inconscio collettivo dei signori del Dominio dal cui Potere non era sicuramente stata esclusa la Puglia. Non mi è capitato mai di sentire raccontare ad una guida turistica, nel suo accompagnamento in scavi archeologici, monumenti, castelli, palazzi signorili, di quella infinita schiera di uomini che, a schiena curva, avevano trasportato pesanti rocce fino in cima ai sogni dei potenti. Una rutilante eccitazione li assale nel loro purulento sbavare delle imprese del re e dell’amore per il suo popolo. Quegli uomini per loro non sono esistiti come oggi, a fianco dei palazzi simbolo del passato Potere e augurio del nuovo Dominio, non esistono le case di quegli schiavi. Il tempo non era per loro. Per loro non erano gli archetipi.
Ne Il ballo della tarantola, Giuseppe Gigli racconta quanto “una povera femminuccia del popolo” gli aveva narrato sulla sua esperienza di puntura di Tarantola. Inserisce il capitolo tra superstizioni, pregiudizi e tradizioni per il fatto che, dando per assodato secondo scienza che quella Tarantola sia velenosa, ritiene che un pregiudizio del popolo di Terra d’Otranto sia, invece, “quello del ballo nelle morsicature delle tarantole”. Pur ritenendo pregiudizio il ballo che per le persone punte era cura e terapia della puntura velenosa, sospende il giudizio quando accoglie il racconto della “povera femminuccia” che dopo tre giorni di ballo si sentì guarita, rendendolo in italiano e pubblicandolo a documento clinico del ballo della tarantola. (Recensione)


mercoledì 24 settembre 2014

E SE IL TARANTISMO FOSSE NATO A PALERMO?


a cura di

Gaetano Bonanno

 Edizioni delle inutilità

Ott. 2014

  Pungesse o mordesse come caspita vuole. Con i velenosi aculei o come ombra nera dall’essenza del niente tramandata da mitologici racconti dei lontani accadimenti e da ancestrali abitudini. Cosa mai mi può interessare se la Tarantola morde o punge. Non saremo poi così ingenui anche se di ortodossia, ortodossi e ortodossanti ne abbiamo piene e anche rotte le palle. Avvelena, avvelena o sono tutti folli, sono tutti folli. Avevano ragione i primi, i secondi o i terzi. Ci vorremo mettere alle prese con le ragioni altrui fino ad ibernare le nostre in attesa dell’incognita di un’amorevole mano che ci venga, oggi domani, a scongelare?

Tutto questo. Tutto quello che volete se proprio volete rischiare. Tant’altro ancora. Lavoratori della notte. Della ragione e della sragione. L’altalena ci dondola sempre sull’orlo, proprio sulla bocca del precipizio. Talvolta la spinge un venticello tal altra una tempesta la scuote. Eppure è la Tarantola che ci stuzzica e ci scazzica inondati come siamo di mitologia e nauseati dai proprietari dell’interpretazione che ci rincorrono con la promessa e la minaccia del disvelamento protetto dietro spessi oscuri vetri blindati che ci venderanno coattivamente senza scelta e solo a caro prezzo. Un gioco di curiosità inutile. Come il gioco del solitario o il tirare pietre con la fionda sulle bottiglie di birra che il giovane moderno alcolizzato ha consumato nella succedanea eccitazione d’abbandonarle prosciugate sui verdi sentieri della montagna. Inutile vuole essere chi gioca solo e non perde mai. Ma nemmeno vince. Si potrà mai sapere se la «taranta» di de Martino fosse di Utilità, e se lo era lo era a qualcuno, o fosse completamente inutile sostenuta da un lavoro di due mesi in campo che portò lo scompiglio nel mondo dei ragni. Incuriosisce dopo le conclusioni dell’etnologo ritrovare qualche volta un ragno dalla faccia tosta che si viene a presentare nero e dalle gambe corte come quelle di un nano di corte e a mettere in ridicolo e in imbarazzo le più serie conclusioni di quotati benefattori dell'umanità. Quasi da non crederci, proprio da La terra del rimorso tecnica d’una Tarantola depurata salta fuori, proprio da lì, un Ragnatello nero che riportando indietro la sveglia delle parole e dei ricordi si va a stanziare in Sicilia e propriamente a Palermo da dove, per lo stesso de Martino, ebbe origine l’indimendicabile evento dal quale la Tarantola fu ridotta per sempre in Taranta.
Non è che per caso de Martino ci volle dire che il suo «tarantismo» nacque proprio a Palermo? Non è che per caso vorrebbero spostare la Notte delle taranta lì dove il «tarantismo» originò? Suvvia. Qua si vuole solo salutare la faccia tosta di una Tarantola che si permette d’affacciarsi alla finistra sui territori del tutto ormai ridotto a delirio allucinatorio de Martiniano. Niente di più. È che questa finestra, dopo che gliel’hanno aperta i Normanni a Palermo, gliel’aveva anche aperto il dottor Giovanni Meli, a Cinisi. Sempre a Palermo. Contraria-Mente? Non siamo sicuri. (Leggi)

- Leggi la recensione su "CONTRARIA-MENTE"

 

venerdì 14 febbraio 2014

DALLA PARTE DELLA TARANTOLA

DALLA PARTE DELLA
TARANTOLA

Da puntura a morso simbolico
Da chi è avvelenato a chi fa l'avvelenato


  


... ho visto un uomo che leggeva un libro.
Non capiva neppure una parola di quello che leggeva,
lo faceva per devozione.

George Barkeley




Tutto quello che de Martino aveva interpretato del fenomeno del Tarantolismo era stupefacente. Finalmente si aspettava l’ultima parola che avrebbe posto fine alla storiella della Tarantola mordi e fuggi dei Pugliesi. Non se ne poteva proprio più. Eppure qualcuno aveva avuto il sospetto che, non sempre per cattiveria, si trattasse di una mistificazione. C’era solo da dimostrarla e portarla alla luce, dichiarando sul suo vero significato da un lato e, dall’altro, mettendo in ridicolo i tarantolati incompatibili con la modernità. In tal modo l’etnologo li avrebbe convinti a desistere dall’inganno o li avrebbe portati alle attenzioni della Psichiatria, particolare il cui significato sembra essere sfuggito a molti. D’altra parte per de Martino non era più ulteriormente sopportabile che ad ostacolare il ritmo già allora forsennato del Capitale e delle Utilità si ci mettessero pure quelle quattro donnette sfuggite ai cancelli d’un Manicomio.
L’impresa era meritevole. In uno de Martino portava un contributo alla “quistione” meridionale, un contributo al Capitale i cui bisogni erano definibili come modernità; un contributo al metodo scientifico attraverso la ricerca in campo e il lavoro in équipe, in un settore come quello dell’Etnologia; un contributo alla storia delle religioni, un contributo ancora alla Psichiatria verso la quale indirizzava quelle donne che s’erano male abituate ad intraprendere, per la risoluzione dei loro conflitti, la via della Tarantola che riproducevano come “taranta”. Un contributo con i mezzi dell’Etnologia e della storia delle religioni. Un contributo alla modernità.
Oggi il “morso” della taranta continua a pizzicare nelle piazze e nelle sacre della Puglia. Non più per i disagi e l’oppressione della società contadina totalmente annichilita. Sono sempre più quelli convinti che le manifestazioni popolari attuali de La notte della taranta esprimano il desiderio e il bisogno di quelle popolazioni di liberarsi, attraverso la musica e le danze, degli affanni, della schiavitù e della mortalità della modernità attuale. Ma non era per aprire alla modernità che de Martino volle organizzare quell’interpretazione squalificante Tarantolismo, tarantolati e comunità relative?
Se quel ballo per de Martino non c’entrasse niente con la Tarantola, e viceversa, ma fosse stato strumento di risoluzione dei conflitti psicologici irrisolti nati in una condizione di relazionalità autoritaria e delle Utilità, quando, come oggi, tale relazionalità si fa sempre più mortale e sempre più diffusa sembra ovvio che si diffonda e si moltiplichi massivamente anche lo sforzo di una rielaborata ritualità coreutico-musicale. Se già allora però tale soluzione, pur col suo senso autogestionario, aveva dato segni di insufficienza e di una nuova mistificazione, oggi, diffusasi direttamente a promozione delle Utilità che aveva voluto combattere, si dimostra radicalmente più insufficiente e mistificatoria contro la diffusa e perpetuata relazionalità di Potere. Volendo fare un’analogia, se ai tempi di de Martino il tarantismo interessava un centinaio di individui, oggi, sganciato totalmente dalla Tarantola, coinvolge masse enormi. Se già allora voleva essere rimedio contro il disagio psicologico interessando un centinaio di persone, oggi che interessa masse enormi di individui, se non vuole essere promozione commerciale, che enormità di disagi e di conflitti psicologici irrisolti sta volendo esprimere e lottare?
La musica e la danza della festa s’accompagnano inestricabilmente alla musica e alla danza terapeutiche e liberatorie fino al punto che le due manifestazioni spesso sono state con molta leggerezza confuse dai vari autori. Non è che per caso sarà sempre la festa ed essere terapeutica e liberatoria anche quando la Trantola punge? Forse la Tarantola non sempre c’entrava con musiche e balli, così come ogni occasione coreutico-musicale non necessariamente c’entrava con una puntura. Ma non c’entra niente la Tarantola con il fenomeno così com’è interpretato da de Martino? La costruzione interpretativa dello storico delle religioni aveva bisogno di fare scomparire la Tarantola. L’etnologo impegno ne mise tanto in tal senso. Gli riuscì come voleva? Fino a quel momento ci si era chiesto cosa della musica, della danza, dei colori, della relazione comunitaria avesse effetto terapeutico sulla puntura della Tarantola. Con de Martino la Tarantola doveva scomparire.
- Scomparve veramente?
Credo di no; nonostante il suo impegno interpretativo, de Martino non riuscì del tutto a liberarsi dal ragno.
Se quello della perdita della presenza è rischio oltre il quale la parentesi si chiude su uno dei suoi poli, un po’ prima si ha l’illusione che sia il caso di posizionarsi e la speranza che la sicura perdita sia la più irrisoria. Una questione anche di scelta è quella di posizionarsi dalla parte della Tarantola che, oltre al tentativo di guardare dal basso, in altro non mi pone se non dalla parte delle inutilità. Non per questo la speranza è disinganno e allucinazione meno chimerica di quella che in alcuni, ridotti a livello di meno che Tarantola, nella rivendicazione sociale d’una presenza che meritava rispetto anche come falangio, speravano a loro volta al massimo delle loro forze di ridurre la perdita almeno d’un po’. Non per questo la Tarantola, i tarantolati, il Tarantolismo potevano e dovevano impietosamente, cinicamente e impunemente essere ridotti a fenomeno allucinatorio con destinazione psichiatrica. Per questo motivo non è dello storico delle religioni, non dell’etnologo, non dell’équipe di cui si mise a capo, non dei dati d’una ricerca in campo e della loro interpretazione, non del “tarantismo” né del Tarantolismo, non di tarantolati, di musici, di danze terapeutiche che vi parlerò. Non di “taranta”. Volendo, nemmeno di Tarantola.
Antidoto essenziale e vitale per coloro che sono punti dalla Tarantola non parlerò nemmeno di musica. De Martino ha suonato la sua che tanti ne ha guariti ora finalmente consapevoli di cosa fossero stati secoli di ragni punture danze e guarigioni. Inganni. Musica che da un lato m’ha scazzicato ma dall’altro innumerevoli dissonanze m’hanno inquietato, sbattuto al suolo e senza forze e senz’avermi guarito. Musica che non appatta con la mia Tarantola. Che mi si lasci ballare e tenere in vita il ragno ché finché ballo la Tarantola non è morta. Allora la musica, quella giusta. Quella la cui giustezza e la cui giustizia non è data da principi, da re, parlamenti, onorevoli, da giudici e nemmeno da professori ma dagli stessi avvelenati.
Agli inizi del ‘700 da quelle parti, Roma, Napoli, Puglia era passato anche il filosofo Berkeley, non certo per la Tarantola. Nemmeno lui era comunque riuscito a sfuggire al ragno. A lui, prima ancora dei medici toscani, avevano presentato «dei ragni con corpo rosso ritenuti tarantole» e chissà che anche quelle non fossero le Tarantole in seguito studiate a Volterra. Aveva saputo anche di ragni bianchi e neri. Verso la fine del ‘700 quei ragni furono visti, studiati, catalogati da due medici toscani, Luigi Toti e Francesco Marmocchi mentre si trovarono al capezzale dei loro pazienti, punti e avvelenati, fino all’ultimo respiro.
Gli osservatori di cui trattiamo sono solamente un campione, un esempio di tutti gli autori e gli studiosi che a vario titolo, e sono stati veramente tanti, s’erano sfiorati o incontrati con la bestia. Dopo qualche secolo ci accorgiamo che in Toscana la Tarantola punge in Puglia la Tarantola morde. È quello che ci dice l’etnologo de Martino attraverso La terra del rimorso, resoconto di una sua ricerca condotta nel Salento nel 1959 attraverso il quale, escludendo la Tarantola e il Tarantolismo, interpreta il fenomeno, in tutte le sue fasi e i suoi elementi, come “tarantismo” alla cui base c’è non il ragno reale ma un ragno simbolico dallo studioso individuato come “taranta”.
Tutto qui?
Ancora una volta non è di tutto ciò che parlerò e che rappresenta solo l’intreccio di percorsi e occasioni verso una più ampia boccata d’ossigeno per i dubbi della quale occorrono polmoni d’acciaio e denti impietosi.

Gaetano Bonanno

 

lunedì 5 agosto 2013

"TARANTE" VELENI E GUARIGIONI



«Scomparsa da lungo tempo la malattia» che in Puglia «era basata più nella disposizione malinconica degli abitanti della Italia meridionale, che sulla natura del veleno della Tarantola, che deve senza dubbio esser riguardato come causa remota del male, che senza la disposizione indicata sarebbesi rimasta inefficace.» Così aveva concluso già nel 1832 G.F.G. Hecker, medico plurititolato presso l’Università di Berlino come della Pontiniana di Napoli. In modo molto affine aveva concluso Ernesto de Martino nel 1961 dopo una ricerca etnografica condotta nel Salento alla fine degli anni Cinquanta. Il veleno causa remota di una malattia, scomparsa già negli anni Trenta e, a dire dell’intellettuale, quindi impossibile ritrovare nel 1959.
Nella letteratura, più o meno scientifica, che tratta di Tarantolismo, la Tarantola è proprio ballerina. Sfuggente ad ogni tavolo anatomico come ad un’attenzione entomologica che in molti tra gli studiosi non avevano, per alcuni era responsabile del fenomeno per altri no, mentre altri ancora la dichiaravano irresponsabile dove una pagina prima l’avevano vista perfino mordere se non pungere. Un andamento altalenante e ambivalente sono in tanti gli scrittori a mantenerlo; sicuramente lo mantiene anche De Martino ma non era il solo: è come se ognuno che scrivesse di Tarantola, oltre a ridurla a “taranta”, già snaturandola nel suo essere, non si sentisse il coraggio di dichiarare idiozia quanto avevano precedentemente scritto i colleghi studiosi, dei quali aveva bellamente corredato la propria bibliografia, mentre era quello che realmente pensava. Un attimo dopo, sentite i cheliceri sulla propria pelle, ritornava l’atroce dubbio: punge o non punge? Quando volevano dire, ma non sapevano dirlo, che pungeva, qualcuno incominciava a parlare di “morso”, variando così tutta la meccanica puntoria e chelicerica del ragno, e di “taranta” riducendo il ragno ad animale simbolico, privato dei suoi cheliceri, del suo veleno e della sua mala abitudine ad andare pungendo la gente.
Lungi dal voler ridurre un fenomeno complesso come il Tarantolismo ad un suo qualche emergente o intrigante elemento, la Tarantola quando può continua a pungere.
Di recente i dottori S. S. Colonna e M. Garofalo, dell’Ospedale Provinciale “Cardinale G. Panico” di Tricase (Lecce) riscontrano in una persona arrivata all’attenzione delle loro cure una “Sindrome rabdomiolitica” da puntura di ragno, la curano e la dimettono. Si tratta del sig. Oronzo che è rimasto solamente una persona punta da una Tarantola e non è stato mai definito, né mai diventato un tarantolato né tantomeno considerato tale. Alcuni suoi parenti, riscontrati in anamnesi punti dalla Tarantola anni prima, sono stati definiti “tarantolati” e sono diventati “tarantolati”. Se la sintomatologia nel tempo è rimasta di una certa stabilità e costanza è cambiata la diagnosi da “Tarantolato” a “Tarantato” a “Sindrome rabdomiolitica” da puntura di ragno. Non è detto che al cambio di diagnosi debba necessariamente seguire un cambio di trattamento.
I trattamento oggi riservato ad Oronzo non c’era fino ai tempi di De Martino e i tarantolati autocreavano e ricevevano le cure di cui erano a conoscenza per averle sperimentate da millenni. Era certamente paradossale che se vivevano costretti in subalternità, esclusione, abiezione e miseria nera all’interno di una relazionalità autoritaria, relativamente alla cura e alla terapia di quella che per loro era un’atroce sofferenza, avessero imparato a fare da loro stessi e lo facevano da millenni in un clima di solidarietà, comunitario e autogestionario dove, l’etnologo, nel 1959, a fianco della Musicoterapica e della Danzaterapia da tempo immemore terapie ufficiali per molte malattie, aveva riscontrato la “Santoterapia”: quella cura che, dal medico Asclepio, si proiettava direttamente su San Paolo assunto all’interno di una relazionalità che, criticabile per quanto si voglia, aveva una funzione terapeutica per quel tipo di sofferenza. Sicuramente più terapeutica di quanto non riusciva ad essere la Neuropsichiatria in pieno Manicomio.
Troppe dicerie, tra superstizione e religione, De Martino aveva deciso di porre fine alle frottole secolari che comunque sembra gli studiosi precedenti non erano stati in grado di evitare: il simbolo agente di un ragno simbolico scatenava nel corpo di chi veniva punto tutta una sintomatologia e una sofferenza per attenuare la quale si ricorreva alla musica, alla danza e ad un gioco di colori. Isterismo? Forse, anche se lo stesso Hecker aveva chiaramente differenziato i due fenomeni sostenendo perfino che l’Isterismo, per le sue tendenze imitatorie, inquinava il Tarantolismo. Intanto De Martino sosteneva d’aver capito che erano le donne a ricevere più facilmente degli uomini un “morso” di “taranta”; perché queste erano portatrici di un conflitto psicologico irrisolto scalpitante nelle nere segrete dell’inconscio che, per evitare, da un momento all’altro, che potesse esplodere in un comportamento sociale non più controllabile, trovava orizzonte di risoluzione in quel comportamento da lui definito “Tarantismo”.
Com’è che quel simbolo del ragno, della Tarantola, con tutta la sua gravità deterministica, simbolo agente fino a qualche anno fa, ora, nel caso di Oronzo, ma non solo, è stato totalmente ignorato, escluso, squalificato? Non esiste proprio più. Perché Oronzo, uomo e non donna, è portatore di una puntura di Tarantola e non di un conflitto psicologico irrisolto? Secondo le conclusioni di De Martino in un errore sarebbero potuti cadere questi medici dell’ultim’ora: trattandosi di un conflitto psicologico irrisolto, il loro intervento per sindrome rabdomiolitica, oltre che inappropriato, evitando un deferimento del paziente alla Neuropsichiatria, avrebbe rischiato di spingere il malessere di Oronzo verso un comportamento non più gestibile socialmente. Verso un comportamento folle.
La Tarantola aveva punto da sempre e continuava a pungere. Se di Medicina si poteva parlare, quella popolare si muoveva tra mitologia, tradizione, religione, superstizione. Chi veniva punto, al di là del sesso e dell’età, altro non desiderava che salvarsi, anche se non se la poteva garantire, quel poco della pelle e della vita che gli rimaneva.
L’etnologo De Martino sostiene che, forse, una volta ci sarà stata qualche puntura (“morso”) di ragno, qualche caso di reale Latrodectismo, a patire dal quale, col tempo, si incominciò a plasmare il Tarantismo da lui osservato nei residui: un fenomeno durante il quale le persone si comportavano come se realmente fossero state avvelenate dalla Tarantola mentre non erano state nemmeno punte.
Leggendo il libro di Ernesto De Martino, La terra del rimorso: contributo a una storia religiosa del Sud, il lettore alla fine, tra puntura sì e puntura no, si vede costretto a chiedersi: ma questo ragno punge o no? È velenoso o no? Se il ragno non punge, tutta la sintomatologia raccontata e descritta da millenni da dove mai deriverebbe? Proprio quella sintomatologia che oggi sembra trovare accoglimento in quella che viene definita “Sindrome rabdomiolitica”. Se punge e non è velenoso, tutta quella terapia cosiddetta coreutico-musicale-cromatica perché la ricercavano e la praticavano? E perché, alla fine, le Tarantolate si sentivano perfino guarite? E se già agli inizi del 1800 il ragno non avvelenava più, perché Oronzo nel 2000 viene curato per avvelenamento da Tarantola?
Dopo quarant’anni sì ma qualcuno se n’è accorto e anche pubblicamente. Se ne sono accorti gli infermieri. Fu infatti dall’incontro e confronto di due infermieri che si volle riaprire un momento di riflessione su un argomento sul quale sembrava essere caduta l’ultima parola. Fu grazie a loro che alla fine del 2000, a Lecce, presso un Centro Congressi, e a cura dell’IPASVI (Collegio Provinciale degli Infermieri Professionali, Assistenti Sanitari e Vigilatrici Infanzia) si organizzò in una giornata di studio il convegno interdisciplinare “Tarante”: veleni e guarigioni - 31 ottobre 2000 - a cura di Roberto Pepe (Infermiere e Aracnologo), Michele Fortuna (Infermiere, Presidente del Collegio IPASVI di Lecce) e Genuario Belmonte (Zoologo - Università degli Studi di Lecce).
Come fa oggi il medico a confermare la puntura della Tarantola, a ritenere quella stessa sintomatologia millennaria, per finire dall’etnologo ritenuta quella di un ragno simbolico, legata questa volta ad un ragno reale, con un salto trans-de Martiniano? Non è un atto di lesa maestà? Come fa il medico, dopo tutto quello a cui un De Martino era pervenuto con la sua meticolosa ricerca sul campo con un’équipe multiprofessionale, a non vedere più nella sintomatologia della persona punta una competenza neuropsichiatrica? È possibile pensare che questa volta non ci troviamo più di fronte a persone portatrici di un conflitto psicologico irrisolto?
Queste e mille altre domande ancora ci suscitano quelle persone della Puglia in particolare. Ancora con De Martino non sembra che i bisogni della Tarantola e dei Tarantolati corrispondessero sempre a quelli dei loro studiosi che, qualche volta sembra si muovessero in una prospettiva diversa sia della Tarantola che dei Tarantolati.
Gli infermieri di Lecce sono per noi curiosi la non conclusiva occasione per un nuovo ciclo di studi e un approfondimento, questa volta si spera inutile, se non delle persone almeno del fenomeno.











a cura di



Roberto Pepe

Michele Fortuna

Genuario Belmonte



Atti del Convegno Interdisciplinare

Collegio Provinciale IPASVI Lecce “TARANTE” VELENI E GUARIGIONI




Il libro “Tarante” veleni e guarigioni può essere richiesto a:
 Collegio IPASVI di Lecce
Via Redipuglia no3 Lecce
Tel. 0832/300508 - Fax. 0832/300526
 segreteria@ipasvi-le.it
 

La Redazione

lunedì 11 marzo 2013

LA GIUSTIZIA DELLA TIRANNIDE





LA LORO DEMOCRAZIA

È

LA NOSTRA TIRANNIA







Sapere cosa sia la “GIUSTIZIA”

            non è coscienza di una volta per tutte

ma consapevolezza

                        da rinnovare e aggiornare

                                   ogni giorno della nostra vita.

La “GIUSTIZIA” odierna

ci rimprovera il disamoramento

            nella lotta contro ogni forma di “GIUSTIZIA”

mentre

            ci viene a ricordare

la validità della nostra coscienza nei suoi confronti

            ci viene a ricordare e a rincuorare

ché non ci siamo sbagliati

né ci stiamo sbagliando

a ritenerla

strumento di DOMINIO per quello che è.

Siamo contro ogni STATO

            contro ogni forma di POTERE

                        contro ogni autoritarismo

                        contro ogni forma di “GIUSTIZIA”.

Siamo contro ogni forma di carcere

            contro ogni forma di carcerazione

anche contro

quella proposta per il “DUCE” Berlusconi

a cui auguriamo tutt’altro che

                        una protezione dietro le sbarre.

TUTTO QUESTO NON VORREMO MAI DIMENTICARE.

Vogliamo allora ricordare a noi stessi che

per poco

            veramente per poco

                        molto spesso per niente

rispetto alla creatività delinquenziale

            del nano malefico

le patrie galere

                        tengono a marcire

                                    carne umana

                                               di tutte le età

                                                           di tutti i sessi

                                                                       di tutti i colori

mentre

                        l’utile nano

                        e tanti suoi tirapiedi di REGIME

custodi del santo sepolcro di POTERE

protettori della chiesa delle UTILITÀ

            possono beffarsi

                                   d’ogni “GIUSTIZIA”

                                               d’ogni tribunale

                                                           d’ogni carcere

            possono scansare

                                   anche un solo giorno di galera

mentre

            le carceri sono stracolme

                        di persone alle quali

                                   dietro le sbarre

                                   I GOVERNI

                                                           senza pietà

                        stanno strappando la vita.

MAI VORREMO DIMENTICARE NOI

MAI VORRETE DIMENTICARE VOI

LIBERI O DETENUTI.

[Contraria-Mente]